19 di luglio: la Rivoluzione tradita e il tradimento dei compagni di lotta

Dal mio libro “Misa Campesina” giunto quest’anno alla terza ristampa con una veste grafica profondamente rinnovata e la contestualizzazione nella realtà attuale, nell’anniversario del trionfo della Rivoluzione Sandista e come testimone della ricostruzione di cui insieme a migliaia di giovani sono stato protagonista, estraggo e propongo un episodio, che la dice lunga sull’attuale dittatore Daniel Ortega talmente cinico e malvagio da sbattere in galera Dora Maria Tellez e mandare in esilio Sergio Ramirez. Buona lettura!

Dora María Tellez “Comandante Uno” nel giugno 1979 (da Wikipedia)

Una questione di etica

            “Quella sandinista è stata l’unica rivoluzione a consumarsi nell’arco di una sola generazione” sottolinea Dora María, ricordando quei dieci anni che l’attuale Governo sta cancellando sistematicamente dalla storia nicaraguense. Una rivoluzione consumatasi troppo rapidamente anche per colpa dei suoi dirigenti che nell’esercizio del potere, ma soprattutto nel momento in cui hanno dovuto abbandonarlo per passare le consegne, non hanno saputo conservare l’etica rivoluzionaria che li aveva ispirati e guidati al trionfo. Quello spirito di rinuncia, di altruismo per il quale si era disposti a sacrificare la vita se necessario, per la causa degli oppressi.

            Conobbi Dora Maria a Roma quando, allora Ministro della Sanità del Nicaragua, l’avevamo invitata insieme a tutti gli altri Ministri della sanità dell’America latina ad una Conferenza su “Salute ambiente e lotta contro la povertà” promossa dalla Cooperazione Italiana insieme alla Organizzazione Panamericana della Sanità. Ci trovammo a pranzo allo stesso tavolo. Ex comandante guerrigliera – passata alla storia come la comandante “uno” della presa del Palazzo Nazionale, uno degli episodi decisivi dell’insurrezione popolare – aveva trasferito la stessa passione e decisione nella gestione della sanità, un campo dove il Nicaragua fu poi preso a modello dalla comunità internazionale.

            “Quando hai di fronte una pagina bianca e sei tu a dettare le regole…hai un potere straordinario…”. Quel potere, in origine ispirato dall’etica rivoluzionaria e posto al servizio della costruzione di un’utopia, è oggi secondo Dora Maria il solo riferimento di Daniel Ortega, incapace di adattarsi all’idea di non essere più il presidente del Nicaragua.

            “Daniel non è uno che si mescola alla gente comune, non lo troverai mai a prendersi un raspado[1] per strada; non accetta nemmeno di essere un semplice deputato e di dover aspettare il suo turno per parlare…”.

            Dora Maria non è tenera nemmeno con l’altro dei due fratelli Ortega, Humberto. Rimasto a capo delle forze armate nicaraguensi anche durante il primo governo postsandinista di Violeta Chamorro, è ora alla testa di un gruppo economico che ha come principale referente proprio l’esercito.

            “Daniel e Humberto sono le due facce di una stessa medaglia; se Daniel non può fare a meno del potere politico, Humberto rappresenta il potere economico” anche grazie alla fortuna costruita durante la piñata.

            In Nicaragua, la piñata non è più il gioco infantile della pignatta, in cui ad occhi bendati si cerca di rompere con un bastone un pentolone di terracotta pieno di caramelle. Oggi indica il processo di spartizione con cui, una volta perso il potere, nei tre mesi di transizione tra il risultato elettorale ed il passaggio di consegne, molti dirigenti sandinisti si sono appropriati di una parte dei beni divenuti proprietà dello Stato con la Rivoluzione. Un processo completatosi più tardi, quando i sandinisti, ormai all’opposizione, negoziarono con il nuovo governo il trasferimento di parte delle proprietà pubbliche ai sindacati sandinisti. In cambio l’FSLN avrebbe sostenuto il processo di privatizzazione e di aggiustamento economico imposto dagli Organismi finanziari internazionali. Quelle proprietà rimasero però alla fine nelle mani dei singoli dirigenti sindacali.

            Dora Maria non usa mezzi termini, il suo linguaggio è immediato, condito di espressioni forti, popolari; la sua condanna degli ex compagni di lotta è senza appello. E’ un’analisi dura; mi provoca sofferenza. Sapevo che tornando dopo tanti anni avrei trovato un Paese diverso, mi avevano avvisato. Avevo messo in conto la sconfitta elettorale del sandinismo ed il sovvertimento di quel progetto sociale da parte dei governi successivi. Ma l’abbandono dei principi etici su cui la Rivoluzione si era fondata, alimentando quel movimento di solidarietà internazionale senza precedenti cui avevo preso parte, provoca una frustrazione ancora più grande.

            Con migliaia di giovani provenienti da ogni parte del mondo, con storie e credi diversi, avevo condiviso gli ideali di giustizia che la rivoluzione sandinista sembrava poter realizzare, nonostante le pressioni americane, resistendo – Davide contro Golia – alla guerra sporca, non dichiarata, finanziata dalla Casa Bianca. Per quella guerra di aggressione, nel 1986, il Tribunale Internazionale dell’Aja condannò gli Stati Uniti d’America al risarcimento dei danni subiti dal Nicaragua. Il Governo americano non riconobbe quel verdetto, anzi, rispose con un nuovo finanziamento di cento milioni di dollari per le operazioni della contra.

            Non una scelta politica, ma il destino mi aveva portato come volontario in Nicaragua. Ciononostante, pur restando critico rispetto a manifestazioni che per la mia storia non potevo condividere, mi ero speso in prima persona, interpretando i soprusi subiti come un fenomeno circoscritto, piuttosto che come l’espressione di un sistema, ma che erano forse, già allora, i sintomi precoci dell’allontanamento della nuova burocrazia dalla Rivoluzione.

            D’altra parte “la Rivoluzione” non è stata sconfitta militarmente, ma nel segreto dell’urna. Il logorio provocato dall’interminabile aggressione, lo stillicidio di morti, i sacrifici richiesti al popolo, ma anche il progressivo allontanamento della classe dirigente e di molti dei comandantes de la Revolución, da quello stesso popolo, avevano superato al momento delle elezioni del 1990, la forza ideale della Rivoluzione. La rivoluzione sandinista, ha comunque il merito di aver restituito il Nicaragua alla democrazia ed è con le regole della democrazia, che il popolo nicaraguense ha deciso di porre fine al sacrificio di decine di migliaia di giovani che al grido di “patria libre o morir” hanno difeso “la Rivoluzione” dall’attacco mercenario: nell’alternativa è prevalsa la morte.

            Oggi un cortigiano della dinastia dei Somoza è Presidente della Repubblica e, nonostante una consistente crescita economica, sono stati raggiunti livelli di miseria e degrado sconosciuti nell’epoca sandinista. Il potere reale di acquisto è oggi inferiore a quello di un decennio fa; quasi la metà della popolazione vive al di sotto della linea di povertà. Le strade sono piene di bambine e bambini che vivono in condizioni di abbandono, sopravvivono lavando i vetri delle automobili o chiedendo l’elemosina, quando non finiscono spacciatori di droga o nel giro della prostituzione. La popolazione femminile dedita alla prostituzione è aumentata del 400% nei dieci anni del postsandinismo e oggi il 40% delle prostitute sono minori, bambine. Clientelismo, nepotismo e corruzione si sono prepotentemente riproposti come metodo di governo. 

            È però il tradimento degli ideali da parte dei leader della rivoluzione -che Dora María riferisce-  a bruciare di più.

            “La piñata è stata la vera sconfitta della Rivoluzione, la vera perdita della santità” concorda Sergio Ramirez che, in un susseguirsi di fortunate coincidenze, incontro qualche giorno dopo.

            Membro della giunta di ricostruzione fin dal momento del trionfo e poi vicepresidente della Repubblica nel Governo sandinista nato dalle prime elezioni democratiche del 1984, dopo la sconfitta elettorale del 1990, Sergio Ramirez ha preso progressivamente le distanze dalla linea prevalente nell’FSLN e nel 1995 ha fondato insieme a Dora María – che ora lo presiede il Movimento Renovador Sandinista.

            Sergio Ramirez calca ancora la mano sugli aspetti etici, poi condanna la direzione “caudillista” di Daniel Ortega alla testa di un partito ormai senza progetto politico, ancora dotato di una struttura in grado di mobilitare le piazze, ma che non si è posto il problema di cosa fare quando non si è in campagna elettorale. Una struttura “vuota”, non più capace di dialogare con una società civile che si esprime attraverso un sempre più diffuso associazionismo e che, anche in Nicaragua, non si riconosce più nella struttura tradizionale del partito.

            Individuo significative coincidenze con la realtà italiana.


[1] granita

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