Misa Campesina, le presentazioni

5 maggio, Clauiano (UD)

18 maggio, Milano

28 maggio, Firenze

6 giugno, Roma

8 giugno, Arezzo

23, giugno Milano (nuova presentazione)

5 maggio – Presentazione a Clauiano (UD), presso Azienda Vinicola Foffani.
18 maggio – Presentazione a Milano, Presso “The Mill” (di Roberto Cociancich) clicca qui per vedere la videoregistrazione della serata

Ascolta qui la presentazione del 18 maggio a Milano su Radio Scout.

Share Button
Lascia un commento

L’OMS e i negoziati per la gestione delle pandemie prossime venture

di Eduardo Missoni

Pubblicato su https://www.assis.it il 29/03/2023

Con la pandemia Covid19 si è tornati a parlare molto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del suo ruolo di coordinamento e direzione dell’attività di sanità internazionale che la sua Costituzione, un accordo internazionale – e come tale vincolante – tra 194 Stati membri, le attribuisce. Questa accresciuta visibilità dell’OMS ne ha però messo in evidenza anche le debolezze ed in particolare la sua esposizione all’influenza del settore privato e in particolar modo della Fondazione Bill e Melinda Gates che si aggiunge a quella dei suoi principali contribuenti pubblici.

Da sempre, come tutte le Istituzioni Internazionali, l’OMS si è dovuta confrontare con le tensioni proprie della geopolitica. Ad esempio, nel contesto della guerra fredda il blocco socialista guidato dall’Unione Sovietica abbandonò l’organizzazione dal 1949 al 1956, manifestando così il proprio dissenso rispetto alla sua gestione considerata filo-occidentale. Analogamente, ritenendo che l’Organizzazione fosse eccessivamente compiacente verso la Repubblica popolare cinese, il 7 di luglio del 2020 gli Stati Uniti dell’amministrazione Trump sono usciti dall’OMS, salvo rientrarvi dopo l’elezione di Biden alla Presidenza.

Con l’affermarsi del pensiero neoliberale “più Mercato meno Stato” e delle amministrazioni conservatrici del presidente Reagan negli USA e della Signora Thatcher nel Regno Unito, l’OMS – come del resto tutto il sistema delle Nazioni Unite – soffrì il “congelamento” del proprio bilancio regolare, costituito dai contributi obbligatori che tutti i paesi membri devono versare all’organizzazione in ragione della valutazione della loro capacità economica. Da allora il contributo obbligatorio degli Stati è rimasto stabile e il finanziamento dell’OMS è divenuto sempre più dipendente da contributi volontari, o fondi fuori bilancio, versati all’Organizzazione a discrezione dei paesi membri, nonché da donatori privati. Nel 2007 il bilancio generale (regolare + fondi fuori bilancio) era ormai costituito da circa il 20% da contributi obbligatori e 80% da contributi volontari, una proporzione che si è poi mantenuta fino ad oggi.[1]

Si potrebbe osservare che, con poche eccezioni (es. nel biennio 2012-2013)  i fondi a disposizione dell’OMS sono comunque sempre aumentati nel corso degli anni.  Purtroppo per l’OMS contributi obbligatori e volontari non hanno la stessa valenza. I primi infatti sono gestiti in autonomia dall’Organizzazione sulla base delle decisioni prese dal suo organo rappresentativo (tutti i 194 Stati membri) e massimo livello decisionale: l’Assemblea Mondiale della Sanità (AMS). L’utilizzazione dei contributi volontari invece è soggetta in maniera più o meno stringente (indicazioni “specifiche” o “tematiche”) alle priorità e le indicazioni dei donatori, salvo che questi decidano di non assoggettarvi i loro contributi o parte di essi (in questo caso nel gergo delle Nazioni Unite si parla di fondi “core”, che sono assimilabili in quanto all’autonomia di gestione ai contributi obbligatori). Per quanto riguarda i donatori privati i contributi non possono che essere volontari e in genere tutti utilizzati secondo la volontà del donatore. È evidente dunque che attraverso il finanziamento i donatori – pubblici e privati – sono in grado di influenzare fortemente l’attività dell’OMS. Inoltre, i contributi volontari sono imprevedibili e fortemente soggetti fluttuazioni, il ché ne impedisce una programmazione a lungo termine oltre ad obbligare l’Organizzazione ad esercizi aggiuntivi di rendicontazione tecnica e finanziaria e quindi ad uso poco efficiente delle risorse,  per rispondere alle esigenze dei donatori.

Contrariamente a quanto si sente dire in circoli agguerriti, ma a volte superficiali nelle loro affermazioni, l’OMS non è “un’organizzazione privata”, né finanziata prevalentemente da donatori privati. L’OMS è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite e come tale a stabilire le strategie, approvare il bilancio, eleggere gli organi esecutivi e il Direttore generale sono i suoi Stati membri. Se esaminiamo i dati finanziari dell’ultimo biennio per cui sono disponibili (2020-2021), vediamo che sommando contributi obbligatori e contributi volontari gli Stati membri contribuiscono al 57,4% del bilancio generale. Le fondazioni private (le cosiddette “filantropie globali”) contribuiscono al bilancio generale per l’8,62%, i partenariati pubblico-privati per il 6% e il settore privato commerciale per appena l’1%. La parte restante del bilancio è costituita da contributi del sistema delle Nazioni Unite, altre organizzazioni intergovernative e fondi di sviluppo (pertanto si tratta anche in questo di fondi pubblici), oltre che da una miscellanea di altri piccoli finanziatori.

È comunque preoccupante che il “governo” mondiale della sanità sia fortemente soggetto a interessi privati, ma è chiaro che la responsabilità ce l’hanno gli Stati membri che fomentando ormai da diversi decenni la partecipazione del settore privato alla cosiddetta governance globale, ovvero ai processi formali e informali di decisione, ne hanno consentito una crescente influenza. Nel biennio in esame, la Fondazione Gates è il terzo finanziatore dell’OMS, dopo la Germania – che ha aumentato significativamente i propri contributi per far fronte alla pandemia di Covid19 – e gli Stati Uniti, e da almeno un decennio sempre tra i primi tre (e addirittura il primo nel 2013). La Fondazione Gates ha inoltre un ruolo determinante in pressocché tutti i partenariati pubblico-privati ed in particolare nell’Alleanza GAVI per la vaccinazioni, di cui è stato l’iniziatore e che è a sua volta al quarto posto tra i finanziatori dell’OMS.

L’influenza degli attori privati sull’attività dell’OMS non si esercita però esclusivamente attraverso la leva finanziaria, ma anche attraverso una serie di altre dinamiche che propiziano la “cattura del regolatore” e nel caso specifico delle politiche dell’OMS e più in generale della salute globale. Queste dinamiche includono il controllo dei media, le azioni di lobby su governi e istituzioni, il finanziamento e il controllo della ricerca e le cosiddette “porte girevoli” per cui dirigenti di alto livello del settore privato passano ad occupare posizioni leader nelle istituzioni pubbliche.[2]

La partecipazione del settore privato, come attore alla pari con i governi nella governance dello sviluppo è ormai parte integrante dell’agenda globale (sancita con la Dichiarazione e gli obiettivi del millennio nel 2000 e riaffermata nell’Agenda 2030, obiettivo di sviluppo sostenibile n.17). Quei partenariati pubblico-privati globali, altrimenti noti come iniziative multistakeholder, ovvero governate da molteplici portatori di interessi, hanno di fatto pregiudicato l’autorità delle organizzazioni multilaterali, intergovernative, cui di fatto hanno sottratto finanziamenti, senza generare un significativo apporto di fondi privati. L’Italia per esempio è divenuta uno dei principali finanziatori di partenariati quali l’Alleanza GAVI e il Fondo Globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria, mentre ha abbandonato l’OMS cui non destina più contributi volontari dal 2015.[3]

Sono ormai lontani gli anni gloriosi tra la fine degli anni 1970 e la prima metà degli anni 1980, quelli della Dichiarazione di Alma-Ata (1978) con cui l’OMS affrontava l’obiettivo della “Salute per tutti entro l’anno 2000” con l’approccio intersettoriale e comunitario delle cure primarie per la salute;  del tentativo di regolamentazione della commercializzazione dei succedanei del latte materno, il latte artificiale indicato come “baby-killer” per il suo spaventoso contributo alla mortalità infantile nei paesi più poveri; del programma dei farmaci essenziali, visto con fastidio dalle imprese farmaceutiche, e le altre iniziative che schieravano l’OMS nettamente a difesa del diritto alla salute. Nel dimenticatoio anche le iniziative che nel trentennale di Alma-Ata per un breve periodo riportarono l’accento sui determinanti sociali della salute. Vi poneva l’accento il rapporto della specifica Commissione dell’OMS,[4] nonché il Rapporto sulla salute mondiale 2008 che puntava al rilancio delle cure primarie, condannando la pervasiva commercializzazione e una sanità “ospedalocentrica”, nonché il distanziamento dai bisogni primari delle persone.[5]

Ormai l’OMS appare nuovamente centrata su di un approccio bio-medico, cui BigPharma è sensibile, e poco attenta ai determinanti sociali, economici, ambientali della salute che implicherebbero, ad esempio, politiche di ridimensionamento dei consumi che certamente troverebbe la fiera opposizione delle forze di mercato.

In questo contesto, l’OMS non ha perduto solo rilevanza sul piano delle attività sanitarie globali, un tempo punto di riferimento per le politiche di sanità pubblica, gli standard sanitari, l’informazione tecnica e scientifica, con la sua apertura alle forze di mercato e condizionata da finanziamenti privati, ha perduto credibilità.

Anche nella maggiore iniziativa multistakeholder lanciata per lo sviluppo di strumenti per far fronte alla pandemia Covid19 – Access to Covid Tool Accelerator, ACT-A – l’OMS è tra i partecipanti ma non ha un ruolo guida, piuttosto è lì per giustificare le scelte di altri attori, a guida privata o pubblico-privata, con la solita “filantropia globale” tra i principali influencer.  Non sorprende che anche quell’iniziativa sia stata diretta alla produzione e distribuzione di vaccini, riservando minima attenzione a diagnostica e farmaci, per non parlare della componente per il rafforzamento dei sistemi sanitari.

Constatata la debole e incerta gestione della pandemia, nonché l’assenza di leadership da parte dell’OMS, l’Assemblea Mondiale della Sanità convocata in sessione speciale nel novembre del 2021 ha deciso di intraprendere un processo di revisione degli strumenti di prevenzione, la preparazione e risposta alle pandemie. Un percorso che si regge su due gambe, che si muovono indipendentemente l’una dall’altra e non è affatto chiaro come potranno muoversi in maniera coordinata in futuro se entrambi gli strumenti in discussione dovessero essere adottati. Da un lato un organo intergovernativo (Intergovernmental Negotiating Body, INB) sta negoziando un “Trattato/accordo pandemico” che laddove lo si giunga a varare (obiettivo maggio 2024), alla sua entrata in vigore l’accordo diverrebbe vincolante per tutti gli stati membri che lo abbiano ratificato.

Anche in questo caso, molte organizzazioni della società civile temono una deriva multistakeholder. La preoccupazione deriva dal fatto che “la bozza zero [del futuro Trattato, n.d.r.] non fornisce salvaguardie che sono fondamentali per definire gli standard di responsabilità e gli strumenti di monitoraggio rispetto al ruolo del settore privato”.  Per quelle organizzazioni è rischioso invitare il settore privato al tavolo per aiutare il mondo a prevenire, prepararsi e rispondere alle future pandemie “considerando come la crisi del COVID-19 sia stata usata dagli attori privati per tenere in ostaggio i diritti alla salute delle persone per espandere i profitti, accaparrarsi le proprietà intellettuali e monopolizzare i mercati”.

Amnesty international, il Global Initiative for Economic, Social and Cultural Rights (GI-ESCR), Human Rights Watch (HRW) e l’International Commission of Jurists (ICJ) hanno invece espresso una seria preoccupazione per i diritti umani che non trovano adeguato riscontro nei negoziati in corso intorno al trattato pandemico.

Parallelamente all’accordo pandemico si sta elaborando una nuova edizione dei Regolamenti di sanità internazionale del 2005 (RSI 2005). Uno strumento ugualmente vincolante per gli stati membri le cui modifiche dovrebbero essere approvate – in base all’attuale tabella di marcia – a maggioranza semplice nel maggio 2024 dalla 77ma Assemblea Mondiale della Sanità (AMS). In quel caso, i nuovi RSI entreranno in vigore entro 12 mesi per tutti gli Stati membri dell’OMS, a meno che uno Stato non presenti un rifiuto o riserve entro un periodo di 10 mesi.

In effetti, è piuttosto ambigua la relazione tra i due strumenti, che presenterebbero sovrapposizioni sostanziali in quasi tutte le aree regolamentate. Né si spiega perché l’OMS e i suoi Stati membri stiano impiegando risorse per negoziare parallelamente due strumenti internazionali con portata e contenuti sovrapposti.

Tra i più di 300 emendamenti agli attuali RSI proposti da sedici stati membri dell’OMS, attualmente all’esame di uno specifico gruppo di lavoro (Working Group on International health Regulations, WGIHR), ce ne sono alcuni che possono destare le preoccupazioni di “cessione di sovranità” cui si riferiscono alcune informazioni riportate in diversi organi di stampa e molte reti sociali, tacciate come “fake news” dal direttore generale della OMS. Seppur spesso imprecise e riferite con toni scandalistici, quelle preoccupazioni non sono del tutto infondate.

Infatti, nella revisione degli RSI, tra le definizioni (art. 1) si propone di cancellare il “non vincolanti” che attualmente delimita il peso delle raccomandazioni dell’OMS. A puro titolo di esempio del possibile assoggettamento degli Stati alle “raccomandazioni” dell’OMS si potrebbe citare la proposta di un nuovo articolo (13A “WHO Led International Public Health Response”) per cui gli Stati “s’impegnano a seguire le raccomandazioni dell’OMS nella loro risposta sanitaria”. Così come l’obbligo che gli Stati assumerebbero, di aumentare – su richiesta dell’OMS – la produzione di prodotti sanitari (includendo “farmaci, vaccini, dispositivi medici, diagnostici, prodotti di assistenza, terapie basate su cellule e geni e altre tecnologie sanitarie“) e di “assicurare che i fabbricanti sul loro territorio forniscano le richieste quantità di prodotti all’OMS e ad altri Stati secondo le istruzioni dell’OMS”.

Su di un altro piano destano preoccupazione gli emendamenti che cancellerebbero tra i principi degli RSI (emendamenti all’art. 3) “la dignità, i diritti umani e le fondamentali libertà delle persone” per sostituirli con generici principi di “equità, inclusività, coerenza”, o quelli che puntano ad accrescere il controllo sull’informazione (emendamenti all’art. 44) per il quale l’OMS e gli Stati si impegnerebbero a collaborare per “contrastare la disseminazione di informazione falsa o poco affidabile” nei media e nelle reti sociali, evidentemente arrogandosi il diritto di censura che, come dovrebbe essere evidente, è stato sistematicamente esercitato a tutti i livelli anche con accordi dell’OMS con le maggiori piattaforme e reti sociali – nel corso della pandemia Covid19. Un preoccupante impegno degli Stati al controllo dell’informazione previsto anche all’art. 17 della “bozza zero” dell’accordo pandemico.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha il mandato di coordinare e dirigere l’attività di sanità internazionale, e la sua costituzione l’ha dotata dei poteri necessari per farlo, ma la deriva che l’OMS ha subito con il crescente finanziamento dei privati, e la sua progressiva “cattura” da parte di questi, suggerisce estrema cautela nel dotare il suo segretariato e il suo DG di poteri aggiuntivi. Benché il DG dell’OMS anche nella conferenza stampa del 23 marzo si è detto aperto al dialogo sul tema degli strumenti in discussione, purtroppo le consultazioni con la società civile appaiono per lo più di facciata. È evidente che l’OMS oggi è più sensibile ai poteri forti, siano questi di ordine geopolitico o economico.


[1] Missoni, E., Pacileo, G. “Elementi di salute globale. Globalizzazione, politiche sanitarie e salute umana” (2° ed.), Franco Angeli 2016.
[2] Matteucci, N. e Missoni , E. Strategie di cattura e governance multistakeholder: il caso dell’OMS. In: Elisa Lello e Nicolò Bertuzzi (a cura di) “Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili”, Castelvecchi, 2022, pp. 151-166.
[3] Dentico, N. e Missoni, E. “Geopolitica della salute. Covid-19, OMS e la sfida pandemica. Rubbettino 2021
[4] Closing the gap in a generation: health equity through action on the social determinants of health, WHO 2008.
[5] The world health report 2008 : primary health care now more than ever. WHO 2008.

Share Button
Lascia un commento

Dissenso Informato – Presentazione del libro (7 luglio 2022)

Durante la pandemia – e più di recente anche sul conflitto russo-ucraino – si è assistito a una riduzione del pluralismo informativo e all’espulsione delle voci critiche, fenomeni che hanno pericolosamente spinto il dissenso verso percorsi di radicalizzazione. Il “dibattito mancato” ha impedito una reale discussione su questioni cruciali che riguardano le politiche sanitarie e le loro conseguenze, così come i molteplici intrecci tra medicina, scienza, economia e politica. Tramite analisi rigorose e documentate, questo libro contribuisce ad aprire finalmente un dibattito plurale, per elaborare strumenti utili a orientarsi nel nuovo scenario e per immaginare modalità alternative, inclusive e democratiche, di gestione delle crisi.

Il video della presentazione (versione integrale) si trova qui

La presentazione di Eduardo Missoni qui

Share Button
Lascia un commento

Nuove recensioni di Misa Campesina

La terza edizione di Misa Campesina, rinnovata nel formato, con aggiornamenti storici in terza e quarta di copertina, arricchita di alcune foto e dei commenti dei lettori delle recensioni della stampa alle prime edizioni, riceve ora nuovi apprezzamenti, che continuerò a pubblicare nella apposita sezione di questo sito web.

Un invito a tutti i lettori ad inviarmi le loro impressioni e commenti all’indirizzo indicato all’interno del libro.

Share Button
Lascia un commento

19 di luglio: la Rivoluzione tradita e il tradimento dei compagni di lotta

Dal mio libro “Misa Campesina” giunto quest’anno alla terza ristampa con una veste grafica profondamente rinnovata e la contestualizzazione nella realtà attuale, nell’anniversario del trionfo della Rivoluzione Sandista e come testimone della ricostruzione di cui insieme a migliaia di giovani sono stato protagonista, estraggo e propongo un episodio, che la dice lunga sull’attuale dittatore Daniel Ortega talmente cinico e malvagio da sbattere in galera Dora Maria Tellez e mandare in esilio Sergio Ramirez. Buona lettura!

Dora María Tellez “Comandante Uno” nel giugno 1979 (da Wikipedia)

Una questione di etica

            “Quella sandinista è stata l’unica rivoluzione a consumarsi nell’arco di una sola generazione” sottolinea Dora María, ricordando quei dieci anni che l’attuale Governo sta cancellando sistematicamente dalla storia nicaraguense. Una rivoluzione consumatasi troppo rapidamente anche per colpa dei suoi dirigenti che nell’esercizio del potere, ma soprattutto nel momento in cui hanno dovuto abbandonarlo per passare le consegne, non hanno saputo conservare l’etica rivoluzionaria che li aveva ispirati e guidati al trionfo. Quello spirito di rinuncia, di altruismo per il quale si era disposti a sacrificare la vita se necessario, per la causa degli oppressi.

            Conobbi Dora Maria a Roma quando, allora Ministro della Sanità del Nicaragua, l’avevamo invitata insieme a tutti gli altri Ministri della sanità dell’America latina ad una Conferenza su “Salute ambiente e lotta contro la povertà” promossa dalla Cooperazione Italiana insieme alla Organizzazione Panamericana della Sanità. Ci trovammo a pranzo allo stesso tavolo. Ex comandante guerrigliera – passata alla storia come la comandante “uno” della presa del Palazzo Nazionale, uno degli episodi decisivi dell’insurrezione popolare – aveva trasferito la stessa passione e decisione nella gestione della sanità, un campo dove il Nicaragua fu poi preso a modello dalla comunità internazionale.

            “Quando hai di fronte una pagina bianca e sei tu a dettare le regole…hai un potere straordinario…”. Quel potere, in origine ispirato dall’etica rivoluzionaria e posto al servizio della costruzione di un’utopia, è oggi secondo Dora Maria il solo riferimento di Daniel Ortega, incapace di adattarsi all’idea di non essere più il presidente del Nicaragua.

            “Daniel non è uno che si mescola alla gente comune, non lo troverai mai a prendersi un raspado[1] per strada; non accetta nemmeno di essere un semplice deputato e di dover aspettare il suo turno per parlare…”.

            Dora Maria non è tenera nemmeno con l’altro dei due fratelli Ortega, Humberto. Rimasto a capo delle forze armate nicaraguensi anche durante il primo governo postsandinista di Violeta Chamorro, è ora alla testa di un gruppo economico che ha come principale referente proprio l’esercito.

            “Daniel e Humberto sono le due facce di una stessa medaglia; se Daniel non può fare a meno del potere politico, Humberto rappresenta il potere economico” anche grazie alla fortuna costruita durante la piñata.

            In Nicaragua, la piñata non è più il gioco infantile della pignatta, in cui ad occhi bendati si cerca di rompere con un bastone un pentolone di terracotta pieno di caramelle. Oggi indica il processo di spartizione con cui, una volta perso il potere, nei tre mesi di transizione tra il risultato elettorale ed il passaggio di consegne, molti dirigenti sandinisti si sono appropriati di una parte dei beni divenuti proprietà dello Stato con la Rivoluzione. Un processo completatosi più tardi, quando i sandinisti, ormai all’opposizione, negoziarono con il nuovo governo il trasferimento di parte delle proprietà pubbliche ai sindacati sandinisti. In cambio l’FSLN avrebbe sostenuto il processo di privatizzazione e di aggiustamento economico imposto dagli Organismi finanziari internazionali. Quelle proprietà rimasero però alla fine nelle mani dei singoli dirigenti sindacali.

            Dora Maria non usa mezzi termini, il suo linguaggio è immediato, condito di espressioni forti, popolari; la sua condanna degli ex compagni di lotta è senza appello. E’ un’analisi dura; mi provoca sofferenza. Sapevo che tornando dopo tanti anni avrei trovato un Paese diverso, mi avevano avvisato. Avevo messo in conto la sconfitta elettorale del sandinismo ed il sovvertimento di quel progetto sociale da parte dei governi successivi. Ma l’abbandono dei principi etici su cui la Rivoluzione si era fondata, alimentando quel movimento di solidarietà internazionale senza precedenti cui avevo preso parte, provoca una frustrazione ancora più grande.

            Con migliaia di giovani provenienti da ogni parte del mondo, con storie e credi diversi, avevo condiviso gli ideali di giustizia che la rivoluzione sandinista sembrava poter realizzare, nonostante le pressioni americane, resistendo – Davide contro Golia – alla guerra sporca, non dichiarata, finanziata dalla Casa Bianca. Per quella guerra di aggressione, nel 1986, il Tribunale Internazionale dell’Aja condannò gli Stati Uniti d’America al risarcimento dei danni subiti dal Nicaragua. Il Governo americano non riconobbe quel verdetto, anzi, rispose con un nuovo finanziamento di cento milioni di dollari per le operazioni della contra.

            Non una scelta politica, ma il destino mi aveva portato come volontario in Nicaragua. Ciononostante, pur restando critico rispetto a manifestazioni che per la mia storia non potevo condividere, mi ero speso in prima persona, interpretando i soprusi subiti come un fenomeno circoscritto, piuttosto che come l’espressione di un sistema, ma che erano forse, già allora, i sintomi precoci dell’allontanamento della nuova burocrazia dalla Rivoluzione.

            D’altra parte “la Rivoluzione” non è stata sconfitta militarmente, ma nel segreto dell’urna. Il logorio provocato dall’interminabile aggressione, lo stillicidio di morti, i sacrifici richiesti al popolo, ma anche il progressivo allontanamento della classe dirigente e di molti dei comandantes de la Revolución, da quello stesso popolo, avevano superato al momento delle elezioni del 1990, la forza ideale della Rivoluzione. La rivoluzione sandinista, ha comunque il merito di aver restituito il Nicaragua alla democrazia ed è con le regole della democrazia, che il popolo nicaraguense ha deciso di porre fine al sacrificio di decine di migliaia di giovani che al grido di “patria libre o morir” hanno difeso “la Rivoluzione” dall’attacco mercenario: nell’alternativa è prevalsa la morte.

            Oggi un cortigiano della dinastia dei Somoza è Presidente della Repubblica e, nonostante una consistente crescita economica, sono stati raggiunti livelli di miseria e degrado sconosciuti nell’epoca sandinista. Il potere reale di acquisto è oggi inferiore a quello di un decennio fa; quasi la metà della popolazione vive al di sotto della linea di povertà. Le strade sono piene di bambine e bambini che vivono in condizioni di abbandono, sopravvivono lavando i vetri delle automobili o chiedendo l’elemosina, quando non finiscono spacciatori di droga o nel giro della prostituzione. La popolazione femminile dedita alla prostituzione è aumentata del 400% nei dieci anni del postsandinismo e oggi il 40% delle prostitute sono minori, bambine. Clientelismo, nepotismo e corruzione si sono prepotentemente riproposti come metodo di governo. 

            È però il tradimento degli ideali da parte dei leader della rivoluzione -che Dora María riferisce-  a bruciare di più.

            “La piñata è stata la vera sconfitta della Rivoluzione, la vera perdita della santità” concorda Sergio Ramirez che, in un susseguirsi di fortunate coincidenze, incontro qualche giorno dopo.

            Membro della giunta di ricostruzione fin dal momento del trionfo e poi vicepresidente della Repubblica nel Governo sandinista nato dalle prime elezioni democratiche del 1984, dopo la sconfitta elettorale del 1990, Sergio Ramirez ha preso progressivamente le distanze dalla linea prevalente nell’FSLN e nel 1995 ha fondato insieme a Dora María – che ora lo presiede il Movimento Renovador Sandinista.

            Sergio Ramirez calca ancora la mano sugli aspetti etici, poi condanna la direzione “caudillista” di Daniel Ortega alla testa di un partito ormai senza progetto politico, ancora dotato di una struttura in grado di mobilitare le piazze, ma che non si è posto il problema di cosa fare quando non si è in campagna elettorale. Una struttura “vuota”, non più capace di dialogare con una società civile che si esprime attraverso un sempre più diffuso associazionismo e che, anche in Nicaragua, non si riconosce più nella struttura tradizionale del partito.

            Individuo significative coincidenze con la realtà italiana.


[1] granita

Share Button
Lascia un commento

Attualità del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”

Video preparato per la manifestazione tenutasi a Roma “In difesa della costituzione e dei diritti umani” – Verità è Libertà, ma non presentato.

Circa cent’anni fa all’inizio di un altro Ventennio, un cospicuo numeri di intellettuali e primo firmatario Benedetto Croce sottoscrisse il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti.

Quel manifesto torna ad essere attuale di fronte all’instaurarsi di un regime che torna a violare i diritti umani, usando la pandemia come grimaldello per riaffermare il dogma neoliberale che tutto sacrifica alle leggi del Mercato trasferendo ogni potere alla grande finanza, concentrando profitti e ricchezza nelle mani di pochi, sacrificando la vita quotidiana del resto della popolazione. 

Con Croce e i firmatari di allora, gli intellettuali onesti di oggi sono chiamati a resistere:

“Per questa caotica e inafferrabile “religione” noi non ci sentiamo, … di abbandonare la nostra vecchia fede […] che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento”.

In un paese, l’Italia, che per quei principi di giustizia e libertà ha combattuto contro il Regime di allora, e su quei principi ha costruito la propria Costituzione e la democrazia, non possiamo accettare che si torni indietro.

L’introduzione di una tessera, un lasciapassare verde” che forse per vergogna storica e con evidente omologazione alla egemonia culturale globale si è voluto definire con parola inglese “Green Pass”, si configura come nuovo strumento di controllo sociale, discriminazione e violazione della libertà. Anche in aperta violazione della norma europea che esplicitamente sancisce che tale certificazione non deve comportare alcuna discriminazione

Uno strumento che in Italia ha un solo precedente: proprio quella tessera del partito fascista, senza la quale non si poteva lavorare. Oggi a chi non aderisce è preclusa ormai di fatto ogni attività sociale. 

Quella tessera verde, che ha reintrodotto nel nostro Paese un’ignobile apartheid, non è sostenibile sul piano scientifico, giacché ignora l’evidenza del contagio da parte delle persone vaccinate, e plurivaccinate. Non solo, i vaccinati abbassano la guardia favoriti dalle misure coercitive del governo, tese solo a penalizzare i vaccinati senza una solida logica di sanità pubblica. Così sono i non vaccinati a dover temere il contagio dai vaccinati che abbandonano ogni precauzione, non il contrario.

Mentre le imprese multinazionali del farmaco e i pochi gruppi finanziari da cui sono controllate, così come l’economia che gira intorno alla pandemia, continuano a fare profitti di migliaia di miliardi finanziati interamente con denaro pubblico, migliaia di operatori sanitari e dei servizi sociali, dipendenti pubblici e molti altri vengono sospesi e privati dei mezzi di sussistenza. L’economia del Paese è messa in ginocchio da misure che non si giustificano sul piano sanitario.

L’Oms, che pure ha grosse responsabilità nella promozione esclusiva dei vaccini a discapito delle cure precoci, possibili grazie a farmaci generici e a basso costo, ha appena dichiarato “inutili i richiami con i vaccini esistenti”.

Invece il Governo, con tutte le forze politiche conniventi, obbliga la cittadinanza a terze e quarte dosi, senza arrendersi di fronte alla evidenza dello svanire della già limitata efficacia dei cosiddetti “vaccini”, che non sono stati nemmeno progettati per contenere il contagio e sono in effetti terapie geniche che avevano un senso se somministrate a specifici gruppi a rischio anziani con comorbidità, certo non alla popolazione generale dove, possibilmente, hanno addirittura spinto la moltiplicazione delle varianti ed il cui impatto a lungo termine non è noto, mentre quello a breve termine è ampiamente sottostimato.

Chi si permette di contraddire la narrazione ufficiale della pandemia subisce la censura, moltitudinarie manifestazioni pacifiche sono state soppresse con violenza di regime, infiltrandole o lasciando libertà ai violenti per giustificare la repressione. Perfino i media sembrano rispondere alla parola d’ordine del regime oscurando o ridicolizzando l’espressione del dissenso.

 “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti” recita il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani. Tutti senza distinzione di alcun genere.

Oggi in Italia che purtroppo fa da guida alla scelta di altri Paesi, quel principio è violato.

È giunto il momento di unirci nella resistenza donne e uomini liberi, lavoratori e lavoratrici, autonomi o dipendenti, pubblici e privati, nonché disoccupati, pensionati, giovani e anziani in un rinnovato anelo transgenerazionale di libertà e uguaglianza, richiamandoci all’inderogabile dovere di solidarietà affermato dalla nostra Costituzione e nella riaffermazione di quegli inviolabili principi che essa sancisce, contro ogni discriminazione, per il bene comune.  

Share Button
Lascia un commento

Profilassi e trattamento della COVID 19: benefici, rischi e qualità dell’evidenza

Un documento frutto di un intenso e approfondito lavoro svolto da un gruppo di ricercatori, medici, accademici e addetti ai lavori, intrapreso e portato avanti al fine di contribuire al dibattito sulla attuale pandemia COVID-19 da un punto di vista interdisciplinare.

Il documento è propositivo e intende offrire possibili soluzioni in alternativa a interventi coercitivi, i quali, in quanto tali, finiscono per sancire il fallimento del legislatore e della scienza nel far fronte alle sfide poste dalla cosiddetta “società della conoscenza” (Trattato di Lisbona, 2009). A causa della pressione del succedersi degli eventi e della scarsa familiarità con gli strumenti scientifici utilizzati per affrontarla, i decisori politici non hanno avuto l’opportunità di vagliare adeguatamente l’attendibilità delle opinioni e evidenze offerte dagli esperti. In tali contesti il dissenso tra studiosi è un indice di salute che non va censurato, ma anzi utilizzato per il consolidamento delle ipotesi di lavoro. Ci preme anche sottolineare l’importanza di una visione complessa e dinamica del problema, caratterizzato da meccanismi epidemiologici e sociali ricchi di feedback negativi e di rinforzo, che possono vanificare soluzioni univoche o statiche. La letteratura del “mechanism design” (Börgers, 2015) ci insegna come la programmazione di politiche miranti ad influenzare il comportamento del cittadino mediante incentivi e deterrenti (ad esempio fiscali), sia compito altamente complesso e gremito di trappole. A volte lo strumento può sviluppare una cascata di effetti paradossali (opposti a quelli attesi), o controproducenti in ambiti inattesi, o fenomeni di feedback negativo (Lucas 1976), che ne neutralizzano l’efficacia (Hess e Martin, 2006).

Scarica la ricerca

Share Button
Pubblicato in Salute Globale | Lascia un commento

Elezioni in Nicaragua: Orteguismo ad perpetuum?

"la revolución perdida
en el actual régimen de terror y mentira
la familia ha deforestado el país 
indefensos en la globalización"

Ernesto Cardenal

Quando la incontrai a Managua nel 1999, Dora Maria Tellez, la ex comandante uno della Rivoluzione sandinista, fu durissima con Daniel Ortega: “Daniel non è uno che si mescola alla gente comune, non lo troverai mai a prendersi un raspado (una granita) per strada; non accetta nemmeno di essere un semplice deputato e di dover aspettare il suo turno per parlare…” “Daniel non può fare a meno del potere”. Anche Sergio Ramirez, lo scrittore ex vice presidente del primo governo rivoluzionario, quando lo visitai, calcò la mano sugli aspetti etici e condannò la direzione caudillista di Daniel Ortega.

Di quelle conversazioni raccontavo nel mio libro “Misa Campesina” che ora esce nella sua terza ristampa. Erano considerazioni profetiche che già delineavano il carattere di Daniel Ortega, loro compagno nell’impresa rivoluzionaria che aveva sconfitto la trentennale dittatura della famiglia Somoza, innescando poi quell’incredibile mobilitazione di solidarietà internazionale nel processo di ricostruzione cui avevo partecipato. La guerra sporca della controrivoluzione finanziata dagli Stati Uniti era riuscita ad interrompere quella esperienza, permettendo che si riaffermassero un governo e politiche neoliberali.

Dopo aver riconquistato la guida del paese nel 2006, mentre metteva in atto un’importante agenda sociale (assistenza sanitaria, educazione, lotta alla povertà), il comandante ha flirtato con la destra e il neoliberismo, ha sedotto gli uomini d’affari aprendo le porte a forti investimenti stranieri.

Ora l’orteguismo – ovvero il regime imposto dalla coppia presidenziale Daniel e sua moglie Rosario Murillo – vorrebbe perpetuarsi a vita con “il terrore e la menzogna”, come ha scritto il poeta Ernesto Cardenal, ex Ministro della cultura del primo governo rivoluzionario.

Eliminate le voci dissenzienti, tra cui proprio quella di Sergio Ramirez, costretto all’esilio, e di Dora Maria Tellez, in carcere, e con avversari solo quelli delle liste civetta (in Nicaragua li chiamano “zancudos”, zanzare, abituati a vivere fuori dal sistema in cambio della partecipazione come comparse) utili a giustificare il processo, le elezioni del 7 novembre scorso sono state un circo dal copione e risultato già scritto: la vittoria degli Ortega che si sono attribuiti con il 75% dei consensi, ma che ha visto l’80% di astensioni (secondo le organizzazioni semiclandestine d’opposizione). Dunque, quarto mandato per l’attuale capo di stato, con la moglie Rosario Murillo che da vice diventa co-presidente.

Paradossalmente, oggi – a quarant’anni dal trionfo della Rivoluzione sandinista – può assumere nuovo significato tornare a leggere il libro, per ritrovare i valori e le speranze di allora e infondere energia nelle nuove generazioni, perché la tristezza possa trasformarsi nuovamente in sorriso “cuando todos regresemos a la Misa Campesina”.

Share Button
Pubblicato in Biografia, Misa Campesina, Nicaragua | Contrassegnato , | Lascia un commento

Misa Campesina. Un medico italiano nel Nicaragua rivoluzionario

Terza ristampa.

Da ottobre in libreria.

Una rilettura dell’esperienza vissuta da medico nei primi anni della rivoluzione sandinista, che assume nuova rilevanza in un momento storico in cui il Nicaragua vive di nuovo il terrore della dittatura e soffre la repressione del nuovo regime guidato da chi in quegli anni appassionanti aveva guidato il processo rivoluzionario, salvo poi tradire l’etica rivoluzionaria e con essa migliaia di giovani che da tutto il mondo giunsero per dare una mano alla costruzione dell’utopia.

Ma il libro trasmette un messaggio: “È possibile intraprendere percorsi nuovi, ma bisogna essere preparati individualmente e collettivamente ad affrontare ostacoli, tradimenti e sconfitte. Sempre pronti però a ripartire senza perdere di vista l’Obiettivo che dà senso alla Strada percorsa e quella che abbiamo ancora davanti”. Preparatevi ad una lettura avvincente

Share Button
Pubblicato in Biografia, Misa Campesina, Nicaragua | Lascia un commento

Rilettura a vent’anni dal G8 di Genova “Un fondo globale per la salute: il G8 mostra il suo volto umano ?”

Dopo essermi dimesso dall’incarico di presidente del Gruppo di esperti sanitari del G8 (lettera), partecipai al Global Social Forum di Genova e in un panel con Susan George e Angelo Stefanini, presentai il mio punto di vista sulla nascita di quelloo che sarebbe diventato il Fondo Globale per la lotta all’HIV/Aids, la tubercolosi e la malaria, perlatro lasciando da parte anche la prima ipotesi ancora tutta italiana di un Fondo globale per la salute. Di seguito il testo integrale del mio intervento del 17 luglio 2001 a Genova.

Ancora non sappiamo se sarà dedicato esclusivamente all’HIV/AIDS, ad un più ampio spettro di malattie trasmissibili o genericamente destinato all’assistenza sanitaria, ma un nuovo fondo globale è già stato annunciato, separatamente dal segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, e dalla presidenza italiana del G-8.
La proposta sembrerebbe riscontrare un ampio consenso non solo tra i membri del G8 e nell’ambito delle Nazioni Unite, ma anche tra i paesi in via di sviluppo, nel settore privato e tra i rappresentanti della società civile (un termine che oggigiorno sembra comprendere anche organizzazioni filantropiche come ad esempio la fondazione Bill & Melinda Gates).
Il fondo globale per l’HIV/AIDS e la salute (come sarà probabilmente chiamato il fondo) sarebbe la dimostrazione di come il G8 abbia effettivamente messo la salute al centro dell’agenda dello sviluppo globale e della particolare attenzione dedicata alla lotta contro la povertà. Dunque, non vi sarebbe nulla da obiettare.
Ma cerchiamo di capire meglio i principali aspetti della proposta in questione.


La principale ragione addotta per la costituzione di un nuovo fondo globale (esistono già diverse iniziative simili a quella proposta dal G8; GAVI, IAVI, MIM, TB drug fund etc.) è che alla necessità di fondi aggiuntivi per 10-20 miliardi di dollari l’anno per dieci anni, necessari per la lotta contro alcune delle principali malattie infettive (ma Kofi Annan parla di 7-10 miliardi di dollari l’anno per far fronte alla sola epidemia di HIV/AIDS), non si possa far fronte con il solo Aiuto Pubblico allo Sviluppo ed è dunque indispensabile una “nuova partnership“.

Il nuovo fondo globale verrebbe costituito sulla base di una donazione iniziale da parte del G8 di 500 milioni di dollari e donazioni per un ammontare equivalente da parte dei privati; a tal fine s’inviterebbero le maggiori multinazionali a contribuire ciascuna con 500 mila dollari.

In merito alla gestione del fondo, è curioso che proprio il segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nel promuovere l’idea di un Fondo globale per l’AIDS abbia sottolineato che esso “dovrebbe essere governato da un comitato indipendente” – e ci si potrebbe chiedere: indipendente da chi? – esterno alle Nazioni Unite “perché” – ci dice Kofi Annan – “io voglio chiamare altri ad unirsi alla lotta”.

E’ lo stesso Annan a ricordare in un suo scritto recentemente apparso sul quotidiano italiano “La Repubblica”, che più salute rappresenta un grande vantaggio anche per il business, perché significa più lavoratori e più consumatori. Questo è l’argomento di Kofi Annan per giustificare di fornte al mondo del business la creazione di un nuovo Fondo Globale.
Proprio perché “un ruolo cruciale dovrebbe essere giocato dai contributi provenienti dal settore privato e dalle ONG”, il modo migliore per ottenere un simile sostegno – si legge in un documento del G8 – sarebbe quello di “associare il settore privato nel sistema di governo del Genoa Trust Fund“.

Dunque, le multinazionali, e non solo quelle farmaceutiche – come si specifica nel documento G8 – siederebbero nel consiglio di amministrazione del fondo, assieme ai rappresentanti dei paesi donatori, delle organizzazioni delle Nazioni Unite (in particolare OMS, UNICEF, UNAIDS) e della Banca Mondiale.

Ciò sulla base del curioso principio enunciato nel documento dei G8, secondo il quale “Il Governo spetta a coloro che forniscono e usano i fondi”.

Sulla base dello stesso principio si potrebbe ipotizzare che, chiunque offra di partecipare con propri fondi al bilancio di uno stato, anche nel caso in cui si trattasse di un boss mafioso o del leader di un cartello di  narcotrafficanti, debba partecipare di diritto al Consiglio dei ministri!

Sottolineo che nel documento del G8 non c’è nessuna traccia di un’eventuale partecipazione dei paesi più poveri al consiglio di amministrazione.

Ma veniamo al dunque. Chi sarebbe chiamato ad amministrare il fondo, a stabilirne il piano d’azione, a curarne il bilancio, a valutarne e approvarne i programmi?

Ovviamente la Banca Mondiale. Non è forse la Banca Mondiale il leader globale in sanità?  Naturalmente la Banca Mondiale amministrerebbe il Fondo attraverso un Segretariato cui  parteciperebbe anche personale proveniente da UNAIDS, OMS ed UNICEF.


Permettiamoci alcune osservazioni.

1. Riguardo alle risorse.


Attualmente (2000) l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (flusso finanziario netto) ammonta a 53 miliardi di dollari, pari allo 0,22% del Prodotto Nazionale Lordo dei paesi OCSE. I 10-20 miliardi di dollari richiesti per la lotta alle malattie infettive rappresenterebbero solo una piccola frazione delle nuove risorse che si renderebbero disponibili qualora si rispettasse l’impegno, assunto decenni or sono, di portare l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo allo 0,7% del Prodotto Nazionale Lordo, ovvero moltiplicando per tre o per quattro gli attuali 53 miliardi di dollari.
Ovviamente, qualunque contributo aggiuntivo proveniente dal settore privato sarebbe il benvenuto. Onestamente, però, chiedere 500.000 dollari ad una multinazionale è come chiedere una piccola carità, offrendo in cambio un enorme ritorno d’immagine, in sostanza a costo zero, e gli ovvi vantaggi aggiuntivi derivanti dalla partecipazione alla gestione del Fondo. Con le conseguenze che è facile prevedere.

Piuttosto, si dovrebbe invitare il settore privato a contribuire allo sforzo globale riducendo il prezzo dei farmaci, delle tecnologie e di altri beni correlati alla salute, producendo in tal modo un notevole effetto moltiplicatore nella riduzione dei costi dei servizi sanitari. Di per sé, il pieno rispetto dei diritti umani da parte delle multinazionali, la garanzia di più elevati standard lavorativi e l’adozione di cicli produttivi che rispettano l’ambiente, produrrebbero un impatto sulla salute pubblica, superiore a qualsiasi donazione.
Il supporto logistico nella distribuzione di farmaci ed altri beni sanitari, è solo una delle tante ulteriori forme possibili di collaborazione con il settore privato.

Senza considerare il ricorso a meccanismi di prelievo fiscale internazionale, ivi inclusa la cosiddetta “Tobin tax” sulle transazioni finanziarie, che potrebbero garantire un enorme, costante, flusso di capitali e risorse da reinvestire nei servizi sanitari.

2. Riguardo alla gestione del fondo

Indipendentemente dalla provenienza dei fondi, per quale ragione le risorse non dovrebbero essere raccolte e amministrate, dalle esistenti organizzazioni delle Nazioni Unite? L’UNICEF, ad esempio, non è forse un Fondo con una lunga esperienza nell’attrarre e canalizzare anche contributi provenienti dal settore privato? Perché mai un comitato “indipendente” per decidere dell’utilizzazione di risorse per la salute pubblica globale, e non invece l’Organizzazione Mondiale della Sanità che ne ha il mandato e la legittimità? A chi risponderanno il nuovo Fondo Globale, ed i suoi organi di Governo? Non
esiste forse un evidente conflitto d’interessi tra la partecipazione dell’industria (soprattutto quella farmaceutica) ad un Comitato di Gestione che ha tra i suoi compiti la decisione di strategie di acquisto di farmaci?

Ancora, in un Comitato dove alcuni paesi membri dell’ONU sono autonomamente rappresentati, non verrebbe ad essere minata la legittimità delle Nazioni Unite quali rappresentanti di interessi collettivi della comunità internazionale?

Per avere una visione completa del processo interno al G8 e capire come da un iniziale approccio globale alla salute si sia giunti ad una proposta limitata alla costituzione di un Fondo Globale per la sanità, vi rimando alla lettura del paper che vi consegno in cui i passaggi più rilevanti sono sinteticamente descritti.

Comunque sia, quando si è persa la visione globale del diritto alla salute, per passare ad un approccio quasi commerciale della salute – soprattutto per il modo in cui ciò è avvenuto – mi sono sentito in dovere di presentare le mie dimissioni da Presidente del gruppo di esperti sanitari del G8 e ho deciso di portare avanti la battaglia insieme a voi. Continuando a lavorare “nel cervello del mostro” – come avrebbe raccomandato un mio collega argentino morto ammazzato sulle montagne della Bolivia nel 1967 – avrei corso il rischio di essere digerito io stesso dalle cellule killer del mostro.


[Nei Termini di Riferimento per la fase di consultazione preliminare sui temi sanitari, predisposti dalla Presidenza italiana e fatti circolare tra i partner nel mese di gennaio, si poneva l’accento su una serie di questioni di grande portata come la necessità di sistemi sanitari equi, efficienti ed efficaci; l’accesso ai servizi sanitari come punto centrale e la prevenzione come nodo fondamentale per “un approccio integrato allo sviluppo, che dia priorità al miglioramento delle condizioni di vita delle persone”; la rimozione dei fattori economici, commerciali, lavorativi, abitativi ed educativi, “che aumentano la vulnerabilità delle popolazioni alle malattie, e/o ne limitano l’accesso alla prevenzione e alla cura”; l’accesso ai farmaci e ad altri beni sanitari essenziali, e le questioni relative allo sviluppo delle capacità produttive locali e alla adozione di sistemi di prezzo differenziati; come pure la necessità di un maggiore coordinamento tra i partner istituzionali.

In quel primo documento “una cornice comune, a supporto del mandato e della direzione da parte di Organismi Internazionali, come l’OMS e di programmi specializzati delle Nazioni Unite” veniva presentata come una delle condizioni irrinunciabili.

La proposta del Fondo Globale è fu introdotta solo successivamente, in un documento intitolato “Oltre la cancellazione del debito” presentato nel mese di Febbraio alla riunione dei Ministri Finanziari del G7. Il Fondo globale divenne quindi il tema scottante del successivo incontro degli esperti sanitari del G8, tenutosi a Roma, nel mese di Marzo. In merito a quella proposta, nel corso di quell’incontro, emersero posizioni molto contrastanti tra gli esperti dei paesi membri; tuttavia, un elemento riscosse unanime consenso: non si sarebbe dovuta costituire nessuna nuova struttura o istituzione,  intesa come organizzazione messe in piedi per raccogliere o canalizzare fondi. Piuttosto si sarebbe dovuto ricondurre ad un’unica cornice le molteplici iniziative esistenti, e rinforzare le Istituzioni internazionali, promovendo meccanismi per accrescerne l’efficienza.

Circa un mese dopo, senza alcuna ulteriore consultazione tecnica, ogni altro tema relativo
alla salute venne cancellato dall’agenda del G8, e venne lanciata l’idea del “Genoa Trust Fund for Health Care”. La proposta prevedeva una nuova struttura, con un proprio comitato di governo, ed una quantità di questioni aperte.][1]

Probabilmente siamo tutti d’accordo sulla necessità di uno sforzo globale per colmare il crescente divario tra le risorse disponibili e i bisogni nella lotta per la salute e contro le malattie nei paesi più poveri, soprattutto nell’Africa Sub Sahariana. Ma anche con un fenomenale aumento delle disponibilità finanziarie, se non correggiamo prima di tutto i fattori strutturali d’iniquità che continuano a far crescere le disuguaglianze in salute, e non cerchiamo di evitare in ogni settore (economico, ambientale, educativo, etc.) le politiche che possano avere effetti secondari negativi sulla salute pubblica, la nostra battaglia per il diritto alla salute non avrà successo.


Servono maggiori risorse per far fronte alla drammatica situazione sanitaria in Africa e, possibilmente, procedure più efficienti per canalizzare quelle risorse verso i paesi più bisognosi. Dovremmo tuttavia essere molto cauti, evitando di sacrificare un consolidato diritto internazionale, valori ed organizzazioni già esistenti, in favore di nuove forse attraenti, ma molto discutibili partnership.

Di una partnership abbiamo certamente bisogno: una partnership veramente globale, tra tutti coloro che si battono affinché tutti siano cittadini del mondo.


[1] Il testo tra parentesi quadre è quello cui si rimanda nel discorso, contenuto nel paper, ma non pronunciato per esigenze di tempo.

Share Button
Lascia un commento