Erano le 7.15 del mattino quando squillò il telefono. Mia madre chiamava sempre verso quell’ora, per essere certa di trovarmi prima che andassi in ufficio. Ero ancora a letto. Mi alzai raggiunsi il telefono nella stanza a fianco e, rispondendo, mi tornai a sedere sul letto, approfittando del lungo filo dell’apparecchio che poggiai sul pavimento.
“…adesso ti passò papà…” disse mia madre all’altro capo del telefono e del mondo
“Ciaò papà…” avevo appena salutato mio padre, quando sentii un rumore strano, uno scricchiolio, proveniente dal grande armadio a muro dietro le mie spalle “possibile che ci siano dei topi in un appartamento al settimo piano?” pensai, continuando la conversazione, poi d’un tratto sentii che il letto cominciava a muoversi “c’è il terremoto!” annunciai a mio padre
“…è forte?” mi chiese lui preoccupato
“abbastanza, ma non credo ci sia da preoccuparsi qui le costruzioni sono antisismiche…” ma il letto si agitava sempre di più; improvvisamente una lunga crepa si disegnò come un fulmine sulla parete di fronte a me “è forte, è forte…vi richiamo più tardi!” interruppi la conversazione spaventato senza riuscire a rimettere la cornetta sul ricevitore che sembrava rotolare sul pavimento…
Ero al settimo piano esclusi immediatamente la possibilità di scendere in strada, barcollavo come ubriaco… “sotto una trave” pensai ricordando antiche raccomandazioni di mio padre, l’unica trave correva lungo la parete esterna, qualcosa mi disse che non sarebbe stata una buona idea… “sotto lo stipite della porta, allora!” e abbracciai la parete divisoria cercando di mantenermi in piedi. La grande vetrata della stanza andava in frantumi come sotto il fuoco della mitraglia…improvvisamente vedo la parete esterna dell’appartamento staccarsi in blocco e volare nel vuoto, risucchiando mobili e carte…era il finimondo…
“è finita” pensai, ma sentivo di andarmene in pace con il mondo, mi dispiaceva solo di non poter tranquillizare i miei genitori “non vi preoccupate, sono sereno…” mi sarebbe piaciuto potergli ancora dire…
Piano, piano la terra sembrò smettere di tremare, poi come d’incanto tutto tacque. Ero vivo. Per un attimo ebbi la sensazione di non vederci più….ma non avevo gli occhiali sul naso. Erano sul comodino sotto i calcinacci. Quasi d’istinto presi da un cassetto la torcia elettrica e uscii dall’appartamento, la porta era già aperta, scardinata. Feci strada alla gente che scendeva dai piani più alti, tra le grida di spavento, chi vestito, chi come me in pigiama e chi nudo, al buio, in mezzo ad un gran polverone, con l’acqua che scorreva lungo le scale, in mezzo ai calcinacci…sembrava di essere in miniera. Arrivammo in strada. C’era confusione, ma con meraviglia notammo che gli edifici vicini apparivano intatti.
Cosa fare? Qualcuno mi diede una moneta per telefonare…María Inés fu il mio primo pensiero; è vero, solo pochi giorni prima mi aveva lasciato, saremmo rimasti buoni amici, non ero fatto per lei…eppure a me sembrò l’unico vero punto di riferimento in quel momento… le linee naturalmente erano interrotte.
Passata una mezz’ora decisi di tornare sù per recuperare le cose essenziali, sarei stato velocissimo, diverse persone mi sconsigliarono vivamente di rientrare nell’edificio; non gli diedi retta.
Arrivato in casa riunii soldi e documenti; qualche indumento misi tutto in una borsa… la terra non tremava… forse per un pò non avrebbe più tremato… già che c’ero potevo portare via qualcosa di più… iniziaii a riempire lo zaino, poi la valigia, poi ancora una grossaborsa a tracolla, poi via giù per le scale, con la torcia fra i denti e carico fino all’impossibile!
Andai a prendere la macchina custodita a non più di cinquanta metri in un garage che sembrava aver resistito (quella sera stessa lo dichiararono inagibile), caricai tutte le mie cose e partii.
María Inés viveva a pochi minuti di distanza. Un quartiere più elegante, di quelli che persino le catasftrofi naturali sembrano rispettare, del terremoto nessun segno. Suonai al campanello… agitato… picchiai sul vetro della porta d’entrata… suonai il campanello… finalmente María Inés apparve sulla porta d’entrata, ancora in vestaglia:
“Que te pasa?” mi salutò come dicendo: “ti sembra questa l’ora di venire e, per giunta di bussare in quel modo”.
“Ma come… il terremoto?” balbettai. Dovevo avere un aspetto convincente, in pigiama e tutto impolverato, eppure
“Il terremoto?” mi rispose con aria sorpresa. Scoppiai a piangere. Mi abbracciò. Si rese immediatamente conto che non era il momento di scherzare; intuì che quel che mi era successo doveva essere ben più grave di quel terremoto che lei aveva superato solo con un pò di spavento, ma senza conseguenze.
Eppure, nessuno dei due aveva ancora compreso a fondo il dramma che si era compiuto in città, dove interi quartieri erano stati rasi al suolo e per molti giorni si continuarono ad estrarre, a migliaia, le vittime dalle macerie.
Da quel 19 settembre, esattamente sette mesi dopo averla conosciuta, non lasciai più la sua casa. Più tardi la lasciammo insieme.