Correva l’anno 1980. Nicaragua, primo anniversario del trionfo della Revolución Sandinista negli occhi e nelle riflessionidi un giovane medico volontario appena giunto in quel paese.
da Misa Campesina, pp. 52-54
“Fin dalle prime ore dell’alba la Carretera Panamericana era percorsa da una fila ininterrotta di pullman e camion gremiti di persone che giungevano dalle regioni più lontane. Donne e uomini di tutte le età, moltissimi giovani; anche gli studenti che stavano alfabetizzando nella montaña tornavano quel giorno a Managua, per partecipare ai festeggiamenti del primo anniversario della Rivoluzione.
La plaza 19 de Julio, un grande spiazzo asfaltato apposta per l’occasione, era gremita: almeno trecentocinquantamila persone. Sul palco i dirigenti del Frente Sandinista de Liberación Nacional si alternarono al microfono. “Patria libre!” era la consigna, lo slogan, gridato a conclusione di ogni intervento “o morir!” rispondeva la piazza. “Patria o muerte!” riproponeva il palco, “Venceremos!” confermava la folla.
Tra i capi di stato e i grandi leader, solo Fidel Castro aveva risposto all’invito; gli altri, tra cui Carter, Breznew e Arafat, attesissimi, non erano venuti. Sarebbe stato un evento storico, forse avrebbe segnato dall’inizio un destino diverso per il Nicaragua.
Sandino aveva lottato contro l’imperialismo yankee, per la libertà del popolo nicaraguense. Nell’ideale sandinista si erano potuti riconoscere la maggior parte dei nicaraguensi che lottavano contro la feroce dittatura dei Somoza, vassalli del potente vicino del Nord. A pochi mesi dall’insediamento del governo nato dalla Rivoluzione, Violeta Chamorro – che sarebbe poi divenuta Presidente della Repubblica nel 1990 – e Alfonso Robelo, esponenti dell’ala moderata, si erano ritirati e l’FSLN “avanguardia del popolo” con i suoi nove comandanti era rimasto praticamente da solo alla guida del Paese. La bandiera rosso-nera del Frente Sandinista affiancò la bandiera nazionale bianco-azzurra. Le istituzioni e le organizzazioni popolari assunsero la denominazione sandinista, e sandinista era il modello socio-economico proposto. Non si parlava di socialismo e ancor meno di comunismo, parola che per decenni la persecutoria propaganda somozista aveva reso terribile e diabolica all’orecchio nicaraguense, borghese o campesino che fosse. Anche nella ricerca di un modello economico misto, si rifletteva l’originalità della rivoluzione nicaraguense.
Alla ricerca di una prudente, quanto difficile equidistanza dai blocchi, il Nicaragua sandinista si era iscritto tra i paesi non allineati. Oltre all’assistenza di Cuba, immediatamente solidale nei confronti del Nicaragua rivoluzionario, si registrò fin dall’inizio una significativa collaborazione dei paesi dell’Europa occidentale. Meno visibili, ma indiscutibilmente crescenti, erano le relazioni con i paesi del blocco sovietico.
A differenza di molti altri giunti in Nicaragua dopo il 19 di luglio del 1979, la mia partenza non era stata motivata dall’ideologia. e alcuni aspetti propagandistici mi lasciavano perplesso.
Finiti gli studi universitari avevo optato per la sostituzione del servizio militare con un periodo di volontariato civile nella cooperazione internazionale. Influenzato da Albert Schweizer, pensavo ad una “mia” Lambarané in qualche villagio africano. Una certa affinità culturale – anche specchio di un comune passato scout- con le persone che incontrai nel corso dei colloqui di selezione, avevano condizionato poi la mia scelta per il MLAL, destinazione la Colombia. Per tre mesi avevo condiviso con altri volontari in partenza e molti religiosi – anche loro in procinto di iniziare la missione nel Nuovo Continente – un periodo di intensa preparazione presso il Seminario America Latina di Verona.
Anche per la sua ispirazione cristiana, il MLAL non poteva rimanere indifferente a speranze di democrazia e giustizia sociale ed al coinvolgimento delle comunità cristiane nella costruzione della nuova società, con ben quattro preti al governo. Per me la destinazione non faceva molta differenza. Così quando mi proposero di andare in Nicaragua accettai. Non ero certo tra i “rivoluzionari” che avevano seguito quell’esperienza con trepidazione attraverso la televisione e i giornali; a differenza di molti miei amici, in quegli anni, non ero stato attratto dalla politica. Credevo però nei principi di pace e giustizia sociale, ed in quel senso il mio impegno e le mie scelte erano radicali.
La coscientizzazione insita nel metodo di Paulo Freire adottato per la campagna di alfabetizzazione, sembrava viziata dall’inserimento di elementi di propaganda ideologica nella cartilla de alfabetización. Radio e televisione (quest’ultima però praticamente assente in tutta l’area rurale) ripetevano continuamente slogan “rivoluzionari”. La giunta di governo era formata in prevalenza dai comandantes che avevano diretto fino all’anno prima la lotta di liberazione, ma anche da quattro preti, mentre il Paese rimaneva militarizzato. Mi era difficile capire quanto quella capillare presenza armata fosse giustificata da episodi di attività controrivoluzionaria, che a volte non sembravano distinguersi da manifestazioni di criminalità comune.
I bambini, la retaguardia, che sfilarono in piazza sotto il palco quel 19 di luglio, richiamarono alla mia memoria di italiano -seppure formata sui libri di storia e i racconti dei parenti- i “balilla” del ventennio; coì come la sfilata dei giovani inquadrati nella “gioventù sandinista” e la chiamata all’arruolamento nelle “milizie popolari”.
La manifestazione si concluse con la sfilata dei reparti militari. Era il primo anniversario della Rivoluzione sandinista ed erano trascorsi appena due mesi dal mio arrivo in Nicaragua.”