(pubblicato su rivista Micron il 18.8.2019)
La salute definita come «uno stato di completo benessere fisico,
mentale e sociale e non esclusivamente assenza di malattia» è
riconosciuta dalla Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) come un «diritto fondamentale di ogni essere umano senza
distinzione di razza, religione, credo politico, condizione economica o
sociale» (WHO, 1948), un diritto sancito anche dalla
Costituzione italiana all’articolo 32. Nel 1977, la trentesima Assemblea
Mondiale della Salute, massimo organo di governo della OMS, adottò
l’obiettivo della “Salute per tutti entro l’anno 2000” e l’anno
successivo, ad Alma-Ata (nell’odierno Kazakistan), con solenne
dichiarazione tutti i governi del mondo individuarono nella Primary Health Care (PHC) la strategia per il raggiungimento di quell’impegnativo traguardo (WHO, 1981).
La Dichiarazione di Alma-Ata individuava le cure primarie
per la salute quale “parte integrante” del sistema sanitario di ciascun
paese, ma soprattutto legava indissolubilmente l’obiettivo della salute
all’“intero sviluppo sociale ed economico” della collettività, in una
visione basata sull’equità, la partecipazione comunitaria, l’attenzione centrata sulla prevenzione, la tecnologia appropriata ed un approccio intersettoriale ed integrato allo sviluppo (Alma-Ata, 1978).
«Per i più, fu una rivoluzione nel modo di pensare» avrebbe commentato trent’anni dopo il Dr. Mahler,
che come direttore generale dell’OMS in quegli anni aveva guidato
l’iniziativa. «La Salute per tutti è un sistema di valori con le cure
primarie per la salute come sua componente strategica. Le due cose vanno
insieme. Bisogna sapere dove si vuole che ci portino quei valori, per
andare in quella direzione dovevamo usare la strategia della PHC» (WHO,
2008).
L’attuazione della PHC avrebbe richiesto il riorientamento dei sistemi sanitari
in quanto a politiche, strategie e allocazione delle risorse. La
necessità di privilegiare le aree rurali e quelle urbane maggiormente
deprivate, le risposte a bisogni primari dei più poveri,
la prevenzione e la medicina di base, si scontrava con le resistenze
derivanti dall’organizzazione sociale e dalla distribuzione del potere
in molti paesi in via di sviluppo.
L’élite economica, politica e intellettuale spingeva
per servizi curativi di tipo ospedaliero, ad alta specializzazione,
costosi e non sostenibili. L’orientamento di quella élite e dei governi
non sfuggiva alle logiche di una professione medica più attenta agli
aspetti clinici delle malattie, che a quelli sociali.
Il reddito dei medici, la loro promozione sociale e
riconoscimento professionale erano – e sono ancora – legati al livello
di specializzazione e alla sofisticazione tecnologica, piuttosto che al
servizio reso come medici di sanità pubblica o medici di base nelle aree
rurali e più degradate. D’altra parte, la formazione universitaria dei
medici era lontanissima dall’innovazione di competenze (conoscenza,
esperienza e motivazione) che la visione di Alma-Ata richiedeva. Come
scriveva Giulio Maccacaro, in quegli anni: «Un medico
di base capace di inserirsi utilmente in una comunità urbana o rurale,
di averne cura e di intenderne i problemi di malattia e difenderne il
diritto alla salute, non c’è corso di laurea o scuola di specialità che
lo produca».
Di fronte alla complessità del mettere in atto le trasformazioni richieste, sulla spinta di una riunione tenutasi appena un anno dopo Alma-Ata
tra responsabili della Banca Mondiale, di USAID, dell’UNICEF, della
Fondazione Ford e della Fondazione Rockefeller, che ospitò l’evento nel
proprio centro di Bellagio (Italia) (Brown et al, 2006), si sviluppò una
corrente di pensiero – immediatamente sostenuta da alcuni settori
accademici e divenuta poi dominante – che tradusse quell’innovativa
visione in un approccio riduttivo, denominato Selective Primary Health Care
e consistente nell’applicazione selettiva di misure «dirette a
prevenire o trattare le poche malattie che sono responsabili della
maggiore mortalità e morbosità nelle aree meno sviluppate e per le quali
esistano interventi di provata efficacia» (Walsh e Warren, 1979).
I Programmi per far fronte a singole malattie o condizioni identificate
in base a quei criteri, sarebbero stati decisi a livello centrale e poi
realizzati in tutto il paese (e in tutto il mondo) con le stesse
modalità e, spesso, con risorse rigidamente assegnate.
Questo approccio “verticale” rese anche scarso o
inesistente il coordinamento tra i diversi programmi, fino al punto di
costituire separate istituzioni per ciascun programma, come nel caso –
comune in quegli anni – di enti autonomi speciali per l’eradicazione
della malaria. L’applicazione di strategie selettive si
tradusse nella riorganizzazione dei sistemi sanitari per “programmi”
verticali (immunizzazioni, pianificazione familiare, controllo di
singole malattie, etc.) e, quindi, nella disarticolazione dell’azione di
sanità pubblica, con moltiplicazione di costi e spreco di risorse.
In quel contesto, con il manifestarsi della crisi debitoria all’inizio degli anni ‘80
e l’attacco radicale verso le politiche di aiuto, dovuto all’affermarsi
delle tesi neoliberiste promosse dalle amministrazioni Reagan negli USA
e Thatcher nel Regno Unito, si inserirono le ricette macroeconomiche e i
Piani di aggiustamento strutturale (PAS) imposti dagli Organismi
finanziari internazionali (FMI e Banca Mondiale) chiamati a contenere la
crisi. L’assistenza finanziaria ai paesi debitori e l’accesso a nuovi
crediti fu legata all’applicazione di misure macroeconomiche tese ad
assicurare il rispetto degli obblighi contratti dai singoli paesi nei
confronti dei creditori privati.
La ricetta, conforme all’idea neoliberista, consisteva
nella riduzione dell’intervento diretto dello Stato nei settori
produttivi e ridistribuitivi dell’economia, con la riduzione radicale
della spesa pubblica, la privatizzazione dei servizi
socio-sanitari e l’introduzione del pagamento delle prestazioni nel
sistema pubblico, la liberalizzazione dei mercati, il taglio dei salari
e l’indebolimento dei meccanismi di protezione del lavoro. Come
conseguenza di quelle misure di aggiustamento, si assistette al peggioramento delle condizioni di vita e di salute di ampie fasce della popolazione.
Intanto, altri attori iniziavano ad affacciarsi sulla scena sanitaria globale. Tra questi, le società multinazionali
(inizialmente del settore farmaceutico e assicurativo), filantropie
globali – in particolare la Bill and Melinda Gates Foundation – e nuove
forme di partenariato pubblico e privato, le Global Public Private Partnerhips
(GPPP). L’epidemia di HIV/AIDS aveva riportato la salute nell’agenda
internazionale e nuovi fondi per la sanità, ma con l’attenzione
focalizzata su quella e poche altre malattie infettive (oltre
all’HIV/AIDS, soprattutto la malaria e la tubercolosi).
Le iniziative per il controllo di malnutrizione, diarrea o malattie
respiratorie acute, cui era stata dedicata molta attenzione in passato,
sembravano accantonate. Senza parlare della totale disattenzione verso
il crescente peso delle malattie croniche, indissolubilmente legate alle trasformazioni sociali e ambientali in atto.
La Dichiarazione del Millennio, sottoscritta da tutti i
Capi di Stato e di governo nel settembre del 2000 alla conclusione
dell’omonimo vertice, condusse alla identificazione degli Obiettivi di
Sviluppo del Millennio (OSM) che, presi singolarmente, contribuirono
alla riaffermazione dell’approccio “verticale”.
Tra gli 8 OSM, quelli sanitari occuparono uno spazio
significativo. Fissato il traguardo al 2015, si stabilì tra l’altro di
ridurre di due terzi la mortalità nei minori di cinque
anni (OSM 4) e di tre quarti la mortalità materna (OSM 5), ma
l’attenzione e i finanziamenti rimasero prevalentemente centrati sul
controllo dell’epidemia di HIV/AIDS, della malaria e di altre malattie
infettive (OSM 6) con il proposito di ridurne alla metà il numero di
casi. L’OSM 8 invece riguardava il coinvolgimento di nuovi attori
attraverso lo sviluppo di un forte partenariato con il settore privato e con le organizzazioni della società civile nel ricercare lo sviluppo e l’eradicazione della povertà.
Ben presto, dall’idea di partenariato inteso come una responsabilità
sociale per lo sviluppo condivisa tra paesi avanzati e meno avanzati, e
poi estesa a includere il settore privato commerciale e la società
civile, si passò alla traduzione di quel concetto in nuovi assetti organizzativi e alla costituzione di vere e proprie joint-ventures, partenariati globali tra il settore pubblico e il settore privato (Global Public-Private Partnerships,
GPPP): iniziative e organizzazioni globali, più o meno autonome
rispetto alle esistenti istituzioni intergovernative, dedicate a
tematiche specifiche, finanziate e gestite congiuntamente.
Il prototipo di quel modello fu probabilmente l’Alleanza GAVI (Global Alliance on Vaccines and Immunizations,
GAVI) lanciata nel 2000 sulla spinta del finanziamento iniziale (750
milioni di dollari) della Fondazione Bill & Melinda Gates. Seguì la
creazione del Fondo Globale per la lotta all’HIV/ AIDS, la tubercolosi e
la malaria (GFATM) promosso dai G8 al vertice di Genova nel 2001.
Il modello GPPP divenne la tendenza dominante
nel panorama della cooperazione internazionale. Per ogni problema e per
ogni malattia si proponeva una nuova organizzazione, un nuovo gestore
indipendente a partecipazione pubblica e privato, ma le risorse
aggiuntive erano in massima parte pubbliche. Nuove organizzazioni
comportarono nuovi costi di struttura e di personale (a tariffe internazionali) e, come dimostrò da subito il Fondo Globale, anche nuove procedure burocratiche
con costi addizionali sulle già precarie risorse delle istituzioni nei
paesi in via di sviluppo. Senza considerare l’indebolimento dei sistemi
sanitari derivante da un approccio selettivo per malattie e per progetti
avulsi da un piano sanitario nazionale.
Mentre l’orientamento prevalente continuava a puntare su meccanismi di mercato per trovare risorse per la sanità alimentando la frammentazione dei sistemi sanitari
e l’incremento dei costi di transazione per la messa in atto di misure
efficaci, l’evidenza di quei limiti portava l’attenzione verso approcci di sistema per garantire un più vasta copertura sanitaria alle popolazioni più svantaggiate.
Nel 2008 la pubblicazione quasi contemporanea del Rapporto annuale
dell’OMS dedicato alla PHC e del Rapporto della Commissione sui
determinanti sociali della salute, in coincidenza con il 30mo
anniversario della Dichiarazione di Alma-Ata, rilanciò una visione più olistica.
Il primo metteva in evidenza come l’attenzione centrata sull’assistenza
ospedaliera, la frammentazione derivante dalla moltiplicazione di
programmi e progetti e la pervasiva commercializzazione
dell’assistenza sanitaria avessero allontanato i sistemi sanitari dalla
loro funzione, riproponendo la necessità di ripartire da equità e
copertura universale, cure primarie e sistemi centrati sui bisogni delle persone, la promozione di politiche pubbliche (in altri settori) per la salute, e la riaffermazione del principio della responsabilità governativa della salute della popolazione (WHO, 2008).
Il rapporto della Commissione sui determinanti sociali esaminava le
iniquità in salute – le disuguaglianze evitabili – e le forze politiche,
sociali ed economiche che le determinano, raccomandando politiche
ispirate a principi di giustizia sociale e di equità in salute, da sostenere con un’azione globale sostenuta da governi, società civile, dall’OMS e da altre organizzazioni internazionali (CSDH, 2008).
Prima al vertice di Toyako (2008) poi a L’Aquila, i G8 spostarono l’attenzione
sul necessario rafforzamento dei sistemi sanitari proponendo «un
approccio integrale e integrato per il raggiungimento degli obiettivi
del Millennio inerenti la salute … l’accesso universale ai servizi
sanitari, con particolare riguardo alla PHC» e riconoscendo «la salute
come un obiettivo di tutte le politiche» (G8 2009).
Nel 2010, il Rapporto dell’OMS sulla salute mondiale fu dedicato alla “copertura universale” (WHO, 2010). L’approccio intersettoriale
allo sviluppo e, con esso, alla promozione della salute veniva
riproposto con forza il 25 settembre 2015 al vertice dei capi di governo
convocato a New York dalle Nazioni Unite (UN, 2015). La «agenda 2030
per lo sviluppo sostenibile» impegnava i governi all’adozione di un set
di 17 obiettivi «indivisibili» e 169 mete universali per porre fine,
entro il 2030, alla povertà «una volta per tutte, per tutti»; per
combattere le diseguaglianze; per assicurare una protezione durevole del
pianeta e delle sue risorse; creare le condizioni di una crescita
«sostenibile, inclusiva e sostenuta» e di «prosperità condivisa» (UN,
2015).
L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 3 punta a “salute e benessere per tutti a tutte le età” con diversi traguardi, tra cui la “copertura sanitaria universale”
che dovrà assicurare che tutti gli individui e le comunità ricevano i
servizi sanitari di cui hanno bisogno senza incorrere in difficoltà
finanziarie. La copertura include tutto lo spettro dei servizi
essenziali, dalla promozione della salute alla prevenzione, la terapia,
la riabilitazione e le cure palliative. Tuttavia, la copertura sanitaria
universale – su cui sembra concentrarsi la massima attenzione dell’OMS,
che vi ha dedicato nel 2019 la giornata mondiale della salute (7
aprile) – da sola non interpreta appieno lo spirito di Alma-Ata.
Infatti, si centra sull’accesso ai servizi trascurando la centralità
del territorio e della comunità, nonché dei determinanti sociali della
salute.
Nelle celebrazioni del quarantesimo anniversario di
Alma-Ata, tenutasi ad Astana, odierna capitale del Kazakistan, dopo aver
sottolineato che «la frammentazione e segmentazione dei sistemi
sanitari è una ricetta per il fallimento», Clarissa Etienne
ha implorato: «Please, please, please – tre volte “per piacere” – non
riducete la salute ad un pacchetto minimo di servizi essenziali… non
possiamo ripetere gli errori del passato, promovendo processi di riforma
che indeboliscono il governo della sanità e che riducono le cure
primarie ad un pacchetto minimo di servizi per i poveri» (Etienne,
2018).
Con la spinta allo smantellamento dei sistemi di sanità pubblica,
cui si assiste pressoché ovunque, il rischio è reale. I sistemi
sanitari sono soggetti a forze e influenze poderose che spesso
sopraffanno la formulazione razionale delle politiche sanitarie. Queste
forze includono una sproporzionata attenzione verso l’assistenza
specialistica, la frammentazione in una molteplicità di programmi,
progetti e istituzioni in competizione tra loro e la pervasiva
commercializzazione dell’assistenza sanitaria in sistemi inadeguatamente
regolati (WHO, 2010).
Ma quelle non sono le sole forze che agiscono sui sistemi sanitari
limitandone l’uso appropriato delle risorse, il raggiungimento degli
obiettivi e la sostenibilità. Insieme alla crescita e al progressivo
invecchiamento della popolazione, con l’accelerazione del processo di globalizzazione e l’affermarsi dell’ideologia della crescita,
dell’egemonia del mercato e della società dei consumi, si è assistito
alla precarizzazione del lavoro, alla riduzione ai minimi termini dello
stato sociale, alla mercificazione dei beni essenziali ed è stato messo
in crisi l’intero eco-sistema (CSDH. 2008).
La salute è messa costantemente a repentaglio da cicli produttivi agricoli e industriali altamente contaminanti. L’intero sistema alimentare
è sovvertito anche da un marketing sempre più aggressivo che spinge
verso consumi dannosi per la salute. Come conseguenza aumentano le
malattie croniche e degenerative (obesità, diabete, malattie
cardiovascolari, cancro, malattie mentali e neurodegenerative, ecc.) con
quadri sempre più complessi di multimorbosità. Mentre
la denutrizione affligge ancora gran parte dell’umanità ed è tornata a
crescere e la sfida delle malattie infettive è tutt’altro che superata.
Le infezioni resistenti agli antibiotici
crescono a un ritmo molto superiore alla capacità dell’industria di
sviluppare nuovi farmaci e malattie che si credevano relegate al passato
tornano drammaticamente d’attualità. Il mercato spinge per soluzioni
farmacologiche e tecnologiche sempre più costose; in una società
culturalmente medicalizzata e farmacologizzata anche la iatrogenesi pesa
sul sistema, compiendosi la Nemesi medica di cui già parlava Ivan Illich (1974).
In un simile contesto, per la sostenibilità dell’obiettivo di “salute
per tutti a tutte le età” (OSS 3) si richiede una drastica inversione di
rotta, un cambiamento di paradigma ormai improcrastinabile.
[Pubblicato in originale su micron n.43]
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