“Salute per tutti entro l’anno 2000”. Quaranta anni dopo Alma-Ata

(pubblicato su rivista Micron il 18.8.2019)

Alma-Ata 12 settembre 1978 – Conferenza internazionale sulle cure primarie per la salute (Primary health care)

La salute definita come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente assenza di malattia» è riconosciuta dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come un «diritto fondamentale di ogni essere umano senza distinzione di razza, religione, credo politico, condizione economica o sociale» (WHO, 1948), un diritto sancito anche dalla Costituzione italiana all’articolo 32. Nel 1977, la trentesima Assemblea Mondiale della Salute, massimo organo di governo della OMS, adottò l’obiettivo della “Salute per tutti entro l’anno 2000” e l’anno successivo, ad Alma-Ata (nell’odierno Kazakistan), con solenne dichiarazione tutti i governi del mondo individuarono nella Primary Health Care (PHC) la strategia per il raggiungimento di quell’impegnativo traguardo (WHO, 1981).
La Dichiarazione di Alma-Ata individuava le cure primarie per la salute quale “parte integrante” del sistema sanitario di ciascun paese, ma soprattutto legava indissolubilmente l’obiettivo della salute all’“intero sviluppo sociale ed economico” della collettività, in una visione basata sull’equità, la partecipazione comunitaria, l’attenzione centrata sulla prevenzione, la tecnologia appropriata ed un approccio intersettoriale ed integrato allo sviluppo (Alma-Ata, 1978).
«Per i più, fu una rivoluzione nel modo di pensare» avrebbe commentato trent’anni dopo il Dr. Mahler, che come direttore generale dell’OMS in quegli anni aveva guidato l’iniziativa. «La Salute per tutti è un sistema di valori con le cure primarie per la salute come sua componente strategica. Le due cose vanno insieme. Bisogna sapere dove si vuole che ci portino quei valori, per andare in quella direzione dovevamo usare la strategia della PHC» (WHO, 2008).
L’attuazione della PHC avrebbe richiesto il riorientamento dei sistemi sanitari in quanto a politiche, strategie e allocazione delle risorse. La necessità di privilegiare le aree rurali e quelle urbane maggiormente deprivate, le risposte a bisogni primari dei più poveri, la prevenzione e la medicina di base, si scontrava con le resistenze derivanti dall’organizzazione sociale e dalla distribuzione del potere in molti paesi in via di sviluppo.
L’élite economica, politica e intellettuale spingeva per servizi curativi di tipo ospedaliero, ad alta specializzazione, costosi e non sostenibili. L’orientamento di quella élite e dei governi non sfuggiva alle logiche di una professione medica più attenta agli aspetti clinici delle malattie, che a quelli sociali.
Il reddito dei medici, la loro promozione sociale e riconoscimento professionale erano – e sono ancora – legati al livello di specializzazione e alla sofisticazione tecnologica, piuttosto che al servizio reso come medici di sanità pubblica o medici di base nelle aree rurali e più degradate. D’altra parte, la formazione universitaria dei medici era lontanissima dall’innovazione di competenze (conoscenza, esperienza e motivazione) che la visione di Alma-Ata richiedeva. Come scriveva Giulio Maccacaro, in quegli anni: «Un medico di base capace di inserirsi utilmente in una comunità urbana o rurale, di averne cura e di intenderne i problemi di malattia e difenderne il diritto alla salute, non c’è corso di laurea o scuola di specialità che lo produca».
Di fronte alla complessità del mettere in atto le trasformazioni richieste, sulla spinta di una riunione tenutasi appena un anno dopo Alma-Ata tra responsabili della Banca Mondiale, di USAID, dell’UNICEF, della Fondazione Ford e della Fondazione Rockefeller, che ospitò l’evento nel proprio centro di Bellagio (Italia) (Brown et al, 2006), si sviluppò una corrente di pensiero – immediatamente sostenuta da alcuni settori accademici e divenuta poi dominante – che tradusse quell’innovativa visione in un approccio riduttivo, denominato Selective Primary Health Care e consistente nell’applicazione selettiva di misure «dirette a prevenire o trattare le poche malattie che sono responsabili della maggiore mortalità e morbosità nelle aree meno sviluppate e per le quali esistano interventi di provata efficacia» (Walsh e Warren, 1979).
I Programmi per far fronte a singole malattie o condizioni identificate in base a quei criteri, sarebbero stati decisi a livello centrale e poi realizzati in tutto il paese (e in tutto il mondo) con le stesse modalità e, spesso, con risorse rigidamente assegnate.
Questo approccio “verticale” rese anche scarso o inesistente il coordinamento tra i diversi programmi, fino al punto di costituire separate istituzioni per ciascun programma, come nel caso – comune in quegli anni – di enti autonomi speciali per l’eradicazione della malaria. L’applicazione di strategie selettive si tradusse nella riorganizzazione dei sistemi sanitari per “programmi” verticali (immunizzazioni, pianificazione familiare, controllo di singole malattie, etc.) e, quindi, nella disarticolazione dell’azione di sanità pubblica, con moltiplicazione di costi e spreco di risorse.
In quel contesto, con il manifestarsi della crisi debitoria all’inizio degli anni ‘80 e l’attacco radicale verso le politiche di aiuto, dovuto all’affermarsi delle tesi neoliberiste promosse dalle amministrazioni Reagan negli USA e Thatcher nel Regno Unito, si inserirono le ricette macroeconomiche e i Piani di aggiustamento strutturale (PAS) imposti dagli Organismi finanziari internazionali (FMI e Banca Mondiale) chiamati a contenere la crisi. L’assistenza finanziaria ai paesi debitori e l’accesso a nuovi crediti fu legata all’applicazione di misure macroeconomiche tese ad assicurare il rispetto degli obblighi contratti dai singoli paesi nei confronti dei creditori privati.
La ricetta, conforme all’idea neoliberista, consisteva nella riduzione dell’intervento diretto dello Stato nei settori produttivi e ridistribuitivi dell’economia, con la riduzione radicale della spesa pubblica, la privatizzazione dei servizi socio-sanitari e l’introduzione del pagamento delle prestazioni nel sistema pubblico, la liberalizzazione dei mercati, il taglio dei salari e l’indebolimento dei meccanismi di protezione del lavoro. Come conseguenza di quelle misure di aggiustamento, si assistette al peggioramento delle condizioni di vita e di salute di ampie fasce della popolazione.
Intanto, altri attori iniziavano ad affacciarsi sulla scena sanitaria globale. Tra questi, le società multinazionali (inizialmente del settore farmaceutico e assicurativo), filantropie globali – in particolare la Bill and Melinda Gates Foundation – e nuove forme di partenariato pubblico e privato, le Global Public Private Partnerhips (GPPP). L’epidemia di HIV/AIDS aveva riportato la salute nell’agenda internazionale e nuovi fondi per la sanità, ma con l’attenzione focalizzata su quella e poche altre malattie infettive (oltre all’HIV/AIDS, soprattutto la malaria e la tubercolosi).
Le iniziative per il controllo di malnutrizione, diarrea o malattie respiratorie acute, cui era stata dedicata molta attenzione in passato, sembravano accantonate. Senza parlare della totale disattenzione verso il crescente peso delle malattie croniche, indissolubilmente legate alle trasformazioni sociali e ambientali in atto.
La Dichiarazione del Millennio, sottoscritta da tutti i Capi di Stato e di governo nel settembre del 2000 alla conclusione dell’omonimo vertice, condusse alla identificazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) che, presi singolarmente, contribuirono alla riaffermazione dell’approccio “verticale”.
Tra gli 8 OSM, quelli sanitari occuparono uno spazio significativo. Fissato il traguardo al 2015, si stabilì tra l’altro di ridurre di due terzi la mortalità nei minori di cinque anni (OSM 4) e di tre quarti la mortalità materna (OSM 5), ma l’attenzione e i finanziamenti rimasero prevalentemente centrati sul controllo dell’epidemia di HIV/AIDS, della malaria e di altre malattie infettive (OSM 6) con il proposito di ridurne alla metà il numero di casi. L’OSM 8 invece riguardava il coinvolgimento di nuovi attori attraverso lo sviluppo di un forte partenariato con il settore privato e con le organizzazioni della società civile nel ricercare lo sviluppo e l’eradicazione della povertà.
Ben presto, dall’idea di partenariato inteso come una responsabilità sociale per lo sviluppo condivisa tra paesi avanzati e meno avanzati, e poi estesa a includere il settore privato commerciale e la società civile, si passò alla traduzione di quel concetto in nuovi assetti organizzativi e alla costituzione di vere e proprie joint-ventures, partenariati globali tra il settore pubblico e il settore privato (Global Public-Private Partnerships, GPPP): iniziative e organizzazioni globali, più o meno autonome rispetto alle esistenti istituzioni intergovernative, dedicate a tematiche specifiche, finanziate e gestite congiuntamente.
Il prototipo di quel modello fu probabilmente l’Alleanza GAVI (Global Alliance on Vaccines and Immunizations, GAVI) lanciata nel 2000 sulla spinta del finanziamento iniziale (750 milioni di dollari) della Fondazione Bill & Melinda Gates. Seguì la creazione del Fondo Globale per la lotta all’HIV/ AIDS, la tubercolosi e la malaria (GFATM) promosso dai G8 al vertice di Genova nel 2001.
Il modello GPPP divenne la tendenza dominante nel panorama della cooperazione internazionale. Per ogni problema e per ogni malattia si proponeva una nuova organizzazione, un nuovo gestore indipendente a partecipazione pubblica e privato, ma le risorse aggiuntive erano in massima parte pubbliche. Nuove organizzazioni comportarono nuovi costi di struttura e di personale (a tariffe internazionali) e, come dimostrò da subito il Fondo Globale, anche nuove procedure burocratiche con costi addizionali sulle già precarie risorse delle istituzioni nei paesi in via di sviluppo. Senza considerare l’indebolimento dei sistemi sanitari derivante da un approccio selettivo per malattie e per progetti avulsi da un piano sanitario nazionale.
Mentre l’orientamento prevalente continuava a puntare su meccanismi di mercato per trovare risorse per la sanità alimentando la frammentazione dei sistemi sanitari e l’incremento dei costi di transazione per la messa in atto di misure efficaci, l’evidenza di quei limiti portava l’attenzione verso approcci di sistema per garantire un più vasta copertura sanitaria alle popolazioni più svantaggiate.
Nel 2008 la pubblicazione quasi contemporanea del Rapporto annuale dell’OMS dedicato alla PHC e del Rapporto della Commissione sui determinanti sociali della salute, in coincidenza con il 30mo anniversario della Dichiarazione di Alma-Ata, rilanciò una visione più olistica.
Il primo metteva in evidenza come l’attenzione centrata sull’assistenza ospedaliera, la frammentazione derivante dalla moltiplicazione di programmi e progetti e la pervasiva commercializzazione dell’assistenza sanitaria avessero allontanato i sistemi sanitari dalla loro funzione, riproponendo la necessità di ripartire da equità e copertura universale, cure primarie e sistemi centrati sui bisogni delle persone, la promozione di politiche pubbliche (in altri settori) per la salute, e la riaffermazione del principio della responsabilità governativa della salute della popolazione (WHO, 2008).
Il rapporto della Commissione sui determinanti sociali esaminava le iniquità in salute – le disuguaglianze evitabili – e le forze politiche, sociali ed economiche che le determinano, raccomandando politiche ispirate a principi di giustizia sociale e di equità in salute, da sostenere con un’azione globale sostenuta da governi, società civile, dall’OMS e da altre organizzazioni internazionali (CSDH, 2008).
Prima al vertice di Toyako (2008) poi a L’Aquila, i G8 spostarono l’attenzione sul necessario rafforzamento dei sistemi sanitari proponendo «un approccio integrale e integrato per il raggiungimento degli obiettivi del Millennio inerenti la salute … l’accesso universale ai servizi sanitari, con particolare riguardo alla PHC» e riconoscendo «la salute come un obiettivo di tutte le politiche» (G8 2009).
Nel 2010, il Rapporto dell’OMS sulla salute mondiale fu dedicato alla “copertura universale” (WHO, 2010). L’approccio intersettoriale allo sviluppo e, con esso, alla promozione della salute veniva riproposto con forza il 25 settembre 2015 al vertice dei capi di governo convocato a New York dalle Nazioni Unite (UN, 2015). La «agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile» impegnava i governi all’adozione di un set di 17 obiettivi «indivisibili» e 169 mete universali per porre fine, entro il 2030, alla povertà «una volta per tutte, per tutti»; per combattere le diseguaglianze; per assicurare una protezione durevole del pianeta e delle sue risorse; creare le condizioni di una crescita «sostenibile, inclusiva e sostenuta» e di «prosperità condivisa» (UN, 2015).
L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 3 punta a “salute e benessere per tutti a tutte le età” con diversi traguardi, tra cui la “copertura sanitaria universale” che dovrà assicurare che tutti gli individui e le comunità ricevano i servizi sanitari di cui hanno bisogno senza incorrere in difficoltà finanziarie. La copertura include tutto lo spettro dei servizi essenziali, dalla promozione della salute alla prevenzione, la terapia, la riabilitazione e le cure palliative. Tuttavia, la copertura sanitaria universale – su cui sembra concentrarsi la massima attenzione dell’OMS, che vi ha dedicato nel 2019 la giornata mondiale della salute (7 aprile) – da sola non interpreta appieno lo spirito di Alma-Ata. Infatti, si centra sull’accesso ai servizi trascurando la centralità del territorio e della comunità, nonché dei determinanti sociali della salute.
Nelle celebrazioni del quarantesimo anniversario di Alma-Ata, tenutasi ad Astana, odierna capitale del Kazakistan, dopo aver sottolineato che «la frammentazione e segmentazione dei sistemi sanitari è una ricetta per il fallimento», Clarissa Etienne ha implorato: «Please, please, please – tre volte “per piacere” – non riducete la salute ad un pacchetto minimo di servizi essenziali… non possiamo ripetere gli errori del passato, promovendo processi di riforma che indeboliscono il governo della sanità e che riducono le cure primarie ad un pacchetto minimo di servizi per i poveri» (Etienne, 2018).
Con la spinta allo smantellamento dei sistemi di sanità pubblica, cui si assiste pressoché ovunque, il rischio è reale. I sistemi sanitari sono soggetti a forze e influenze poderose che spesso sopraffanno la formulazione razionale delle politiche sanitarie. Queste forze includono una sproporzionata attenzione verso l’assistenza specialistica, la frammentazione in una molteplicità di programmi, progetti e istituzioni in competizione tra loro e la pervasiva commercializzazione dell’assistenza sanitaria in sistemi inadeguatamente regolati (WHO, 2010).
Ma quelle non sono le sole forze che agiscono sui sistemi sanitari limitandone l’uso appropriato delle risorse, il raggiungimento degli obiettivi e la sostenibilità. Insieme alla crescita e al progressivo invecchiamento della popolazione, con l’accelerazione del processo di globalizzazione e l’affermarsi dell’ideologia della crescita, dell’egemonia del mercato e della società dei consumi, si è assistito alla precarizzazione del lavoro, alla riduzione ai minimi termini dello stato sociale, alla mercificazione dei beni essenziali ed è stato messo in crisi l’intero eco-sistema (CSDH. 2008).
La salute è messa costantemente a repentaglio da cicli produttivi agricoli e industriali altamente contaminanti. L’intero sistema alimentare è sovvertito anche da un marketing sempre più aggressivo che spinge verso consumi dannosi per la salute. Come conseguenza aumentano le malattie croniche e degenerative (obesità, diabete, malattie cardiovascolari, cancro, malattie mentali e neurodegenerative, ecc.) con quadri sempre più complessi di multimorbosità. Mentre la denutrizione affligge ancora gran parte dell’umanità ed è tornata a crescere e la sfida delle malattie infettive è tutt’altro che superata.
Le infezioni resistenti agli antibiotici crescono a un ritmo molto superiore alla capacità dell’industria di sviluppare nuovi farmaci e malattie che si credevano relegate al passato tornano drammaticamente d’attualità. Il mercato spinge per soluzioni farmacologiche e tecnologiche sempre più costose; in una società culturalmente medicalizzata e farmacologizzata anche la iatrogenesi pesa sul sistema, compiendosi la Nemesi medica di cui già parlava Ivan Illich (1974).
In un simile contesto, per la sostenibilità dell’obiettivo di “salute per tutti a tutte le età” (OSS 3) si richiede una drastica inversione di rotta, un cambiamento di paradigma ormai improcrastinabile.

[Pubblicato in originale su micron n.43]


Bibliografia

Alma-Ata (1978). Primary Health Care. Report of the International Conference on Primary Health Care. Alma-Ata, USSR, 6-12 September.

Brown T.M., Cueto M., Fee E. (2006), “The World Health Organizationand the transition from ‘international’ to ‘global’ public health”, American Journal of Public Health, 96(1), 62-72.

CSDH (2008). Closing the gap in a generation: Health equity through action on the social determinants of health. Geneva: World Health Organization. http://whqlibdoc.who.int/publications/2008/9789241563703_eng. pdf ?ua=1

Etienne, C. (2018). Closing remarks at Global Conference on Primary Health Care – Astana, Kazakhstan 25-26 October.

G8 (2009), G8 Leaders Declaration. Responsible Leadership for a sustainable future. L’Aquila. www.g8.utoronto.ca/summit/2009laquila/2009-declaration.html

Illich I. (1974). Nemesi medica. L’espropriazione della salute.

Maccacaro G. (1971). Una facoltà di medicina capovolta, intervista. Tempo Medico, novembre 1971, n.97.

UN (2015). Resolution adopted by the General Assembly on 25 September 2015. Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development. A/Res/70/1. 21 October. New York: United Nations.
http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/ RES/70/1&Lang=E

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WHO (2008). The World Health Report 2008 – primary Health Care (Now More Than Ever). Geneva: World Health Organization. https://www.who. int/whr/2008/en/ (Last accessed 25.11.2018).

WHO (2010). The World Health Report 2010. Health systems financing: the path to universal coverage, World Health Organization, Geneva.

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