Con Saluteglobale.it associazione di promozione sociale, in particolare del diritto alla salute, abbiamo esplorato a fondo il tema delle mascherine, concludendo sulla necessità di una urgente ulteriore revisione delle linee guida della OMS, nonché di indirizzare la ricerca su tecnologie appropriate per una produzione diffusa di dispositivi di protezione individuale, tenendo a mente anche le condizioni delle popolazioni più svantaggiate.
L’uso di mascherine chirurgiche e altri Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) è ormai al centro del dibattito e delle polemiche sulle misure di controllo della pandemia COVID-19. In Italia, anche su questo tema le Regioni e il coordinamento nazionale continuano ad andare in ordine sparso, con ordinanze e decreti contrastanti. L’immagine ripetuta di rappresentanti delle istituzioni che indossano una mascherina, spesso anche in modo improprio (es. lasciando scoperto il naso), mentre sottolineano che l’uso deve esserne riservato ai sintomatici è senz’altro un elemento aggiuntivo nel creare grande confusione.
Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 6 aprile 2020 continuano a sconsigliare l’uso di mascherine chirurgiche in persone asintomatiche, in quanto non ci sarebbero sufficienti prove circa la loro completa efficacia, una posizione seguita fin qui dalle nostre autorità sanitarie nazionali, ma che diverse Regioni italiane, nonché un numero crescente di paesi anche in Europa, non hanno preso affatto in considerazione. Come la Repubblica Ceca che per prima ne ha reso obbligatorio l’uso per tutti e come del resto era stato fatto in Corea del Sud e in Cina, paesi dove peraltro l’uso delle mascherine è da tempo parte del costume e il cui uso generalizzato viene considerato tra gli elementi del successo nel contenimento dell’epidemia.
In particolare, fin dalla prima edizione (29 gennaio 2020) le linee guida dell’OMS sono state tassative nello sconsigliare l’uso di mascherine di stoffa, perché potrebbe addirittura propiziare il contagio attraverso la ridotta efficacia per un uso scorretto o generando un falso senso di sicurezza. Ciò non ostante, venerdì 3 aprile Mike Ryan, il responsabile dell’OMS per le emergenze ha ammesso che anche le mascherine fatte in casa potrebbero contribuire a ridurre la diffusione del virus; di fatto contraddetto il 6 aprile dalle nuove linee guida dell’Organizzazione che ha ritenuto di non potersi esprimere con una raccomandazione in assenza di prove definitive né in favore, né contro il loro uso in comunità. L’OMS piuttosto continua a sottolineare il potenziale rischio derivante dall’uso generalizzato di mascherine che potrebbe creare un falso senso di sicurezza, indurre a trascurare le pratiche di igiene delle mani e di distanziamento fisico, comportare costi inutili e sottrarre le mascherine agli operatori in prima linea, soprattutto quando si è a corto di scorte. L’OMS se ne lava dunque le mani e lascia che siano le autorità nazionali a decidere cosa suggerire in merito all’uso di mascherine non omologate e realizzare ulteriori ricerche in tal senso.
Cerchiamo di approfondire.
Soprattutto nell’emergenza la decisione di sanità pubblica non può basarsi esclusivamente sull’insufficienza di prove di efficacia ottimale, quando mancano nel contempo prove ugualmente certe di un potenziale rischio. E’ invece indispensabile adottare una visione di sistema che tenga conto anche di determinanti sociali, culturali, economici e persino etici, oltre che di buon senso.
In effetti, la revisione sistematica della letteratura scientifica non individua studi che indichino un reale pericolo nell’uso diffuso di mascherine chirurgiche nella popolazione generale (“in comunità”) esiste invece un pressoché generale consenso sul ruolo delle mascherine nel ridurre almeno in parte (in base al materiale o alla combinazione di materiali di cui sono fatte) l’esposizione di persone sane alle infezioni respiratorie e, in misura maggiore, di contrastare la capacità delle persone infette di diffondere l’infezione.
D’altra parte, esiste ormai ampio consenso sul fatto che il coronavirus possa essere trasmesso anche da persone asintomatiche. Risulta dunque evidente che l’uso di una barriera protettiva, per quanto non ottimale, sia per le persone sintomatiche che asintomatiche debba essere universale. Salvo promuoverne un uso corretto ed evitare che esso distragga da altre misure di protezione e controllo.
Resta il problema dell’approvvigionamento. La pandemia ha messo in discussione il funzionamento del mercato globale. Paradossalmente, quando la Cina – principale produttore mondiale – all’apice dell’epidemia ha chiesto sostegno internazionale, molte delle mascherine vendute in Italia erano “made in Wuhan”. Nel mentre altri paesi produttori bloccavano le loro esportazioni per soddisfare il prevedibile aumento della domanda nazionale. Intanto, in Italia contravvenendo alle raccomandazioni del Ministero della Salute, un esercito di consumatori nel panico è corso ad acquistare ogni tipo di mascherine e respiratori, lasciando i rivenditori e soprattutto le strutture e gli operatori sanitari privi di qualsiasi DPI. Poiché questa mobilitazione non può essere fermata – va compreso che le persone sono mosse principalmente dal loro giusto desiderio di protezione personale – allora dovrebbe essere gestita.
Idealmente le mascherine dovrebbero rispondere a standard di sicurezza e qualità riconosciuti, ma l’attuale pandemia non è affatto una situazione ideale. Quasi ovunque, in Italia e all’estero, la domanda è superiore alla capacità di produzione ivi inclusa la riconversione dell’industria nazionale. Solo in Italia, laddove si volesse assicurare la disponibilità di mascherine usa e getta a tutta la popolazione l’approvvigionamento dovrebbe essere in quantità di almeno un centinaio di milioni di mascherine al giorno, senza considerare l’impatto ambientale del loro successivo smaltimento.
E’ per questo che vanno assolutamente ricercate soluzioni alternative, piuttosto che nascondersi dietro la scarsa efficacia per non promuovere l’uso universale della protezione individuale.
La produzione diffusa a livello comunitario e le mascherine fatte in casa appaiono come una buona soluzione anche per consentire che il materiale omologato di alta qualità e massima protezione sia riservato al personale sanitario e quello dovrebbe essere garantito dalle autorità sanitarie. Questa linea è stata sposata recentemente, con una significativa inversione di rotta, persino dal CDC di Atlanta, il centro di controllo delle malattie infettive degli Stati Uniti d’America, nonché dall’omologo Centro europeo di controllo e prevenzione delle malattie (ECDC).
Peraltro, in assenza di adeguata capacità industriale e/o d’importazione, nei paesi più poveri la produzione diffusa a livello comunitario e/o domestico potrebbe essere l’unica opzione possibile.
Soluzioni più avanzate e sostenibili vengono anche da nuove tecnologie, come le stampanti 3D a basso prezzo sempre più accessibili in tutto il mondo, che consentono la produzione a livello comunitario di respiratori a perfetta aderenza realizzati in materiale plastico compostabile, ma dove rimane aperta la questione del materiale da utilizzare per l’elemento filtrante, anch’essa da investigare nell’ottica dell’accessibilità e sostenibilità.
Spetta dunque alle istituzioni, in primis alla OMS, individuare e promuovere le migliori soluzioni possibili (materiali, modelli, etc.) e promuovere ulteriori studi approfonditi in base a criteri di efficacia, sicurezza, disponibilità, accessibilità economica e sostenibilità, ovvero di tecnologia appropriata anche in contesti sociali ed economici svantaggiati. Privilegiando modelli riutilizzabili per evitare di contribuire alla generazione di milioni di tonnellate di rifiuti speciali.
È però essenziale, in questo sono tutti d’accordo, accompagnare la promozione dell’uso universale di mascherine con istruzioni rigorose e intense campagne di educazione sulle corrette modalità di produzione, uso, smaltimento e manutenzione, insistendo sempre sulla necessità fondamentale di combinare l’uso di DPI, con il lavaggio frequente delle mani, l’igienizzazione degli ogetti e degli spazi comuni, il distanziamento sociale e le altre misure di prevenzione e controllo dell’infezione.
Infine, l’uso generalizzato di mascherine, la produzione locale e l’approccio cooperativo potrebbero essere anche un ulteriore forma di emancipazione della popolazione e un modo per riscoprire il valore del contributo che tutti possiamo dare per vincere insieme la battaglia, come nell’epica risorgimentale di Dumas « mascherine per tutti e tutti per le mascherine ».
Speriamo in un Europa più solidale !
Prendiamo i 37 miliardi del Mes
Le mascherine rischiano di diventare un simbolo,un oggetto di discriminazione far gli scienziati la povera gente. Lo scienziato irride l’uso delle mascherine chirurgiche o le imitazioni perchè tanto sono inutili a proteggersi.La povera gente cerca di difendersi come può:sta a casa se ha casa , si copre il volto in mezzo alla folla se può permetterselo. Ed allora,quando una oggetto diventa un simbolo politico è necessario fare come ha fatto Eduardo Missoni. A cosa serve?Che fine fanno?Chi le produce,chi le può fabbricare a casa etc. Quindi necessità di analizzare senza tendenziosità e pregiudizi,così ha fatto Eduardo