Covid-19 e la corsa al vaccino. “Sicurezza sanitaria globale” e mercato

Uno degli aspetti più dibattuti nella lotta contro l’attuale epidemia di Covid-19 è lo sviluppo di un vaccino.

Attraverso i media il pubblico è ripetutamente portato a pensare che solo il vaccino sarà la soluzione e ci sarà una soluzione solo quando un vaccino sarà disponibile.

Una posizione che giustifica una corsa frenetica verso lo sviluppo di un vaccino (con il rischio di enormi investimenti pubblici, ma con ritorni privati).

Tuttavia, ci sono almeno due aspetti che non vengono presi seriamente in considerazione:

1. Le informazioni sulla risposta immunologica intima al virus Sars-Cov-2 (l’agente eziologico di Covid-19) sono ancora molto limitate e non offrono ancora un percorso chiaro e sicuro per lo sviluppo di un vaccino.

2. Per sviluppare un vaccino sicuro e efficace possono essere necessari anni (non mesi) e il successo non è assolutamente garantito. (I ricercatori stanno lavorando su un vaccino contro l’HIV-Aids da circa 40 anni e un vaccino non è ancora disponibile).

3. Il virus è solo l’ultimo anello della catena, a monte ci sono molti determinanti (sociali, economici, ambientali, culturali, politici) da considerare per una vera risposta nella lotta contro la malattia (non solo contro il virus) e per la salute, che non può che essere sistemica.

Quindi la domanda è: “Perché tanta e quasi esclusiva enfasi sul vaccino?

Nel 2016, nell’ambito del convegno internazionale “Epidemie e società, passato, presente e futuro” (tenutosi a Ginevra), ho presentato un documento sul tema “L’economia politica delle epidemie” (pubblicato nel 2017). Riproduco qui di seguito alcuni paragrafi di questo lavoro che possono contribuire a rispondere alla domanda


Nuove importanti risorse globali sono state proposte e mobilitate per rispondere alle emergenze. Gli strumenti di valutazione e i sistemi di reporting sono in discussione in seno all’OMS, con alcune proposte di nuovi meccanismi globali, strutture globali di finanziamento e valutazione indipendente da parte di attori globali. Tuttavia, la “sicurezza sanitaria globale” sembra ridursi alla risposta alle emergenze e al controllo delle malattie infettive, senza considerare le misure necessarie da adottare a livello locale e nazionale all’interno dei Paesi e a livello transfrontaliero, per rafforzare la capacità dei sistemi sanitari di fornire un accesso universale alle cure, a partire dall’assistenza sanitaria di base e dalla promozione della salute a livello comunitario.
Ad esempio, dopo l’epidemia di Ebola, i miglioramenti più notevoli sono stati quelli relativi alla sorveglianza e alle capacità di laboratorio. In Africa sono stati effettuati investimenti nella sorveglianza e nelle capacità di laboratorio attraverso una risposta integrata di sorveglianza delle malattie e il sostegno internazionale ai centri africani e subregionali di controllo delle malattie trasmissibili per il rilevamento e l’allarme tempestivo dei rischi di malattie infettive. Tuttavia, si sono registrati scarsi progressi, ad esempio, nelle capacità di affrontare i rischi chimici e di sicurezza alimentare, suggerendo che, mentre la regione potrebbe essere meglio preparata ad affrontare le epidemie di malattie infettive, questo potrebbe non essere il caso di altri rischi per la salute pubblica, tra cui le malattie croniche non trasmissibli, con prevedibili costi insostenibili che minacceranno la sicurezza sanitaria individuale e collettiva.

Inoltre, l’approccio alla sicurezza sanitaria globale non presta alcuna attenzione alla promozione della salute pubblica attraverso politiche pubbliche che esulano dalle competenze specifiche del settore sanitario, per controllare o almeno per ridurre l’impatto dei determinanti sopra descritti.
In questo contesto, la risposta internazionale alle epidemie è anche influenzata dalla necessità di “evitare inutili interferenze con il traffico e il commercio internazionale”.
L’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE) (la malattia della “mucca pazza”, ndt) del bestiame britannico, iniziata nel 1986, raggunse il suo apice nel 1992. Quando nel 1987 comparvero i primi casi di BSE umana, nel 1987, fu soppresso il tentativo di un veterinario del governo di pubblicare un documento che descriveva uno dei primi casi di BSE, nel sud-ovest dell’Inghilterra, con l’argomento “dei possibili effetti sulle esportazioni e delle implicazioni politiche”.

Troppo spesso le epidemie suscitano anche l’interesse e la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale solo quando si diffondono oltre i limiti dei paesi più poveri. In base a quanto riportato la risposta globale alla recente epidemia di Ebola (2013-2016) è stata lenta. Solo in agosto del 2014 l’OMS ha dichiarato l’epidemia di Ebola un’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale, cinque mesi dopo che i primi casi erano stati segnalati all’OMS, 1.779 persone erano già state contagiate, 961 erano morte, l’epidemia si era diffusa in Nigeria e due operatori umanitari americani infettati in Liberia erano stati evacuati negli Stati Uniti. Solo in quel momento l’epidemia non poteva più essere vista come una crisi umanitaria che colpiva alcuni Paesi poveri dell’Africa, ma cominciava invece ad essere vista come una minaccia alla sicurezza internazionale per i Paesi sviluppati. A settembre si tenne una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e fu istituita la prima missione sanitaria d’emergenza dell’ONU, la United Nations Mission for Ebola Emergency Response (UNMEER), in quanto “la portata senza precedenti dell’epidemia di Ebola in Africa costituisce una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”. Anche i retaggi coloniali sono diventati evidenti nell’organizzazione della risposta dell’Ebola, con l’assistenza militare fornita con il vecchio approccio coloniale.

L’enfasi sulla risposta tecnologica è un altro aspetto comune della risposta globale alle epidemie, che distrae dalle cause alla base dell’epidemia e dal necessario rafforzamento dei sistemi sanitari, facilitando l’accesso ai servizi e agli interventi di salute pubblica. L’attuale sistema di sviluppo di farmaci e vaccini segue il mercato e favorisce le malattie croniche che colpiscono principalmente le persone del mondo sviluppato, piuttosto che le malattie infettive e neglette che possono causare epidemie. Tuttavia, in presenza di epidemie “transnazionali” l’enfasi è posta sulla ricerca di un vaccino o di un farmaco, spesso percepito come “pallottola magica”. La sola epidemia ‘transnazionale’ di Ebola ha mobilitato investimenti per la ricerca di un vaccino ‘last minute’, e personalità eminenti come Bill Gates, Jeremy Farrar del Wellcome Trust e Seth Berkley di GAVI The Vaccine Alliance ha chiesto di finanziare ulteriori ricerche su farmaci, vaccini e test diagnostici, oltre a creare un sistema per accelerare l’approvazione di questi interventi durante una crisi.

Allo stesso modo, non appena l’epidemia di Zika ha fatto notizia, è stata posta molta enfasi sulla necessità di sviluppare un vaccino, piuttosto che sulla relazione della malattia e del suo vettore con le periferie urbane povere e sull’urgente necessità di intervenire con servizi igienici e il controllo dei rifiuti, fornendo adeguati investimenti globali a tal fine.


Conclusioni

I determinanti di vecchie e nuove epidemie, compreso l’aumento delle malattie non trasmissibili in modo epidemico, sono profondamente radicati nel modo in cui le società sono strutturate. Con l’accelerazione della globalizzazione e l’egemonia del modello di sviluppo neoliberale, non solo le malattie infettive si diffondono più velocemente senza frontiere, ma anche nuove pandemie, legate a stili di vita malsani e al degrado ambientale, sono diventate parte del comune destino planetario dell’umanità.
Chiaramente, la lotta globale alle epidemie del XXI secolo non possono essere ridotte a una risposta emergenziale alle malattie infettive. Piuttosto, deve estendersi alle malattie croniche non trasmissibili, identificando e agendo sui loro determinanti sociali, economici, politici e ambientali.

Interventi di pronto soccorso medico e gli interventi di sanità pubblica in risposta alle epidemie sono misure di ultima istanza. Le soluzioni tecniche ai problemi di salute tendono a lasciare intatti i determinanti sociali ed economici della salute e le interrelazioni
che li sostengono.

Certamente sono necessarie risorse per affrontare le emergenze e il loro impatto economico e sociale, tuttavia la risposta del settore sanitario alla prevenzione e al controllo delle epidemie deve essere basata sul rafforzamento a lungo termine dei sistemi sanitari. Un intervento che inizia a livello locale, all’interno dei paesi e in particolare a partire da un’assistenza sanitaria di base completa, universalmente accessibile, servizi di protezione sociale e approcci alla salute pubblica in grado di identificare, prevenire e gestire il rischio prima che diventi un’epidemia.

Tuttavia, molti fattori determinanti delle epidemie e, in generale, della sicurezza sanitaria globale, sono estranei al settore sanitario e al tradizionale ambito di competenza delle autorità sanitarie, e sono fortemente correlati – come salute globale in generale – con i processi di produzione e di consumo, con la struttura della società e con i processi, gli interessi e le influenze sociali, economiche e politiche, e inducono la necessità di una governance globale che faccia della salute equa la priorità in tutti i settori (ad esempio, agricoltura, commercio, industria, istruzione, ambiente) in cui le politiche pubbliche sono sviluppate e negoziate. La prevenzione delle epidemie deve quindi collegare le conoscenze epidemiologiche a processi politici che sono collettivi e comportano una sfida alle istituzioni economiche e sociali che certamente susciteranno un’opposizione politica, richiedendo appropriate strategie e alleanze per affrontare quella sfida.

Per modificare i driver strutturali delle epidemie sarà necessaria un’azione combinata globale, nazionale e locale che riorienti il modello di sviluppo egemonico basato sulla crescita, che non è sostenibile, socialmente iniquo e globalmente malsano. Un tale cambiamento di paradigma richiede necessariamente un sostanziale riorientamento delle politiche a livello nazionale, oltre all’impegno dei cittadini a livello comunitario. L’azione locale e nazionale, a sua volta, non può prescindere dalla complessità del mondo globalizzato e dalla necessità di controllare le forze transnazionali che influenzano la nostra vita quotidiana e infine la nostra salute, attraverso istituzioni e politiche in grado di farlo.

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