Covid-19 e la corsa al vaccino. “Sicurezza sanitaria globale” e mercato

Uno degli aspetti più dibattuti nella lotta contro l’attuale epidemia di Covid-19 è lo sviluppo di un vaccino.

Attraverso i media il pubblico è ripetutamente portato a pensare che solo il vaccino sarà la soluzione e ci sarà una soluzione solo quando un vaccino sarà disponibile.

Una posizione che giustifica una corsa frenetica verso lo sviluppo di un vaccino (con il rischio di enormi investimenti pubblici, ma con ritorni privati).

Tuttavia, ci sono almeno due aspetti che non vengono presi seriamente in considerazione:

1. Le informazioni sulla risposta immunologica intima al virus Sars-Cov-2 (l’agente eziologico di Covid-19) sono ancora molto limitate e non offrono ancora un percorso chiaro e sicuro per lo sviluppo di un vaccino.

2. Per sviluppare un vaccino sicuro e efficace possono essere necessari anni (non mesi) e il successo non è assolutamente garantito. (I ricercatori stanno lavorando su un vaccino contro l’HIV-Aids da circa 40 anni e un vaccino non è ancora disponibile).

3. Il virus è solo l’ultimo anello della catena, a monte ci sono molti determinanti (sociali, economici, ambientali, culturali, politici) da considerare per una vera risposta nella lotta contro la malattia (non solo contro il virus) e per la salute, che non può che essere sistemica.

Quindi la domanda è: “Perché tanta e quasi esclusiva enfasi sul vaccino?

Nel 2016, nell’ambito del convegno internazionale “Epidemie e società, passato, presente e futuro” (tenutosi a Ginevra), ho presentato un documento sul tema “L’economia politica delle epidemie” (pubblicato nel 2017). Riproduco qui di seguito alcuni paragrafi di questo lavoro che possono contribuire a rispondere alla domanda


Nuove importanti risorse globali sono state proposte e mobilitate per rispondere alle emergenze. Gli strumenti di valutazione e i sistemi di reporting sono in discussione in seno all’OMS, con alcune proposte di nuovi meccanismi globali, strutture globali di finanziamento e valutazione indipendente da parte di attori globali. Tuttavia, la “sicurezza sanitaria globale” sembra ridursi alla risposta alle emergenze e al controllo delle malattie infettive, senza considerare le misure necessarie da adottare a livello locale e nazionale all’interno dei Paesi e a livello transfrontaliero, per rafforzare la capacità dei sistemi sanitari di fornire un accesso universale alle cure, a partire dall’assistenza sanitaria di base e dalla promozione della salute a livello comunitario.
Ad esempio, dopo l’epidemia di Ebola, i miglioramenti più notevoli sono stati quelli relativi alla sorveglianza e alle capacità di laboratorio. In Africa sono stati effettuati investimenti nella sorveglianza e nelle capacità di laboratorio attraverso una risposta integrata di sorveglianza delle malattie e il sostegno internazionale ai centri africani e subregionali di controllo delle malattie trasmissibili per il rilevamento e l’allarme tempestivo dei rischi di malattie infettive. Tuttavia, si sono registrati scarsi progressi, ad esempio, nelle capacità di affrontare i rischi chimici e di sicurezza alimentare, suggerendo che, mentre la regione potrebbe essere meglio preparata ad affrontare le epidemie di malattie infettive, questo potrebbe non essere il caso di altri rischi per la salute pubblica, tra cui le malattie croniche non trasmissibli, con prevedibili costi insostenibili che minacceranno la sicurezza sanitaria individuale e collettiva.

Inoltre, l’approccio alla sicurezza sanitaria globale non presta alcuna attenzione alla promozione della salute pubblica attraverso politiche pubbliche che esulano dalle competenze specifiche del settore sanitario, per controllare o almeno per ridurre l’impatto dei determinanti sopra descritti.
In questo contesto, la risposta internazionale alle epidemie è anche influenzata dalla necessità di “evitare inutili interferenze con il traffico e il commercio internazionale”.
L’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE) (la malattia della “mucca pazza”, ndt) del bestiame britannico, iniziata nel 1986, raggunse il suo apice nel 1992. Quando nel 1987 comparvero i primi casi di BSE umana, nel 1987, fu soppresso il tentativo di un veterinario del governo di pubblicare un documento che descriveva uno dei primi casi di BSE, nel sud-ovest dell’Inghilterra, con l’argomento “dei possibili effetti sulle esportazioni e delle implicazioni politiche”.

Troppo spesso le epidemie suscitano anche l’interesse e la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale solo quando si diffondono oltre i limiti dei paesi più poveri. In base a quanto riportato la risposta globale alla recente epidemia di Ebola (2013-2016) è stata lenta. Solo in agosto del 2014 l’OMS ha dichiarato l’epidemia di Ebola un’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale, cinque mesi dopo che i primi casi erano stati segnalati all’OMS, 1.779 persone erano già state contagiate, 961 erano morte, l’epidemia si era diffusa in Nigeria e due operatori umanitari americani infettati in Liberia erano stati evacuati negli Stati Uniti. Solo in quel momento l’epidemia non poteva più essere vista come una crisi umanitaria che colpiva alcuni Paesi poveri dell’Africa, ma cominciava invece ad essere vista come una minaccia alla sicurezza internazionale per i Paesi sviluppati. A settembre si tenne una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e fu istituita la prima missione sanitaria d’emergenza dell’ONU, la United Nations Mission for Ebola Emergency Response (UNMEER), in quanto “la portata senza precedenti dell’epidemia di Ebola in Africa costituisce una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”. Anche i retaggi coloniali sono diventati evidenti nell’organizzazione della risposta dell’Ebola, con l’assistenza militare fornita con il vecchio approccio coloniale.

L’enfasi sulla risposta tecnologica è un altro aspetto comune della risposta globale alle epidemie, che distrae dalle cause alla base dell’epidemia e dal necessario rafforzamento dei sistemi sanitari, facilitando l’accesso ai servizi e agli interventi di salute pubblica. L’attuale sistema di sviluppo di farmaci e vaccini segue il mercato e favorisce le malattie croniche che colpiscono principalmente le persone del mondo sviluppato, piuttosto che le malattie infettive e neglette che possono causare epidemie. Tuttavia, in presenza di epidemie “transnazionali” l’enfasi è posta sulla ricerca di un vaccino o di un farmaco, spesso percepito come “pallottola magica”. La sola epidemia ‘transnazionale’ di Ebola ha mobilitato investimenti per la ricerca di un vaccino ‘last minute’, e personalità eminenti come Bill Gates, Jeremy Farrar del Wellcome Trust e Seth Berkley di GAVI The Vaccine Alliance ha chiesto di finanziare ulteriori ricerche su farmaci, vaccini e test diagnostici, oltre a creare un sistema per accelerare l’approvazione di questi interventi durante una crisi.

Allo stesso modo, non appena l’epidemia di Zika ha fatto notizia, è stata posta molta enfasi sulla necessità di sviluppare un vaccino, piuttosto che sulla relazione della malattia e del suo vettore con le periferie urbane povere e sull’urgente necessità di intervenire con servizi igienici e il controllo dei rifiuti, fornendo adeguati investimenti globali a tal fine.


Conclusioni

I determinanti di vecchie e nuove epidemie, compreso l’aumento delle malattie non trasmissibili in modo epidemico, sono profondamente radicati nel modo in cui le società sono strutturate. Con l’accelerazione della globalizzazione e l’egemonia del modello di sviluppo neoliberale, non solo le malattie infettive si diffondono più velocemente senza frontiere, ma anche nuove pandemie, legate a stili di vita malsani e al degrado ambientale, sono diventate parte del comune destino planetario dell’umanità.
Chiaramente, la lotta globale alle epidemie del XXI secolo non possono essere ridotte a una risposta emergenziale alle malattie infettive. Piuttosto, deve estendersi alle malattie croniche non trasmissibili, identificando e agendo sui loro determinanti sociali, economici, politici e ambientali.

Interventi di pronto soccorso medico e gli interventi di sanità pubblica in risposta alle epidemie sono misure di ultima istanza. Le soluzioni tecniche ai problemi di salute tendono a lasciare intatti i determinanti sociali ed economici della salute e le interrelazioni
che li sostengono.

Certamente sono necessarie risorse per affrontare le emergenze e il loro impatto economico e sociale, tuttavia la risposta del settore sanitario alla prevenzione e al controllo delle epidemie deve essere basata sul rafforzamento a lungo termine dei sistemi sanitari. Un intervento che inizia a livello locale, all’interno dei paesi e in particolare a partire da un’assistenza sanitaria di base completa, universalmente accessibile, servizi di protezione sociale e approcci alla salute pubblica in grado di identificare, prevenire e gestire il rischio prima che diventi un’epidemia.

Tuttavia, molti fattori determinanti delle epidemie e, in generale, della sicurezza sanitaria globale, sono estranei al settore sanitario e al tradizionale ambito di competenza delle autorità sanitarie, e sono fortemente correlati – come salute globale in generale – con i processi di produzione e di consumo, con la struttura della società e con i processi, gli interessi e le influenze sociali, economiche e politiche, e inducono la necessità di una governance globale che faccia della salute equa la priorità in tutti i settori (ad esempio, agricoltura, commercio, industria, istruzione, ambiente) in cui le politiche pubbliche sono sviluppate e negoziate. La prevenzione delle epidemie deve quindi collegare le conoscenze epidemiologiche a processi politici che sono collettivi e comportano una sfida alle istituzioni economiche e sociali che certamente susciteranno un’opposizione politica, richiedendo appropriate strategie e alleanze per affrontare quella sfida.

Per modificare i driver strutturali delle epidemie sarà necessaria un’azione combinata globale, nazionale e locale che riorienti il modello di sviluppo egemonico basato sulla crescita, che non è sostenibile, socialmente iniquo e globalmente malsano. Un tale cambiamento di paradigma richiede necessariamente un sostanziale riorientamento delle politiche a livello nazionale, oltre all’impegno dei cittadini a livello comunitario. L’azione locale e nazionale, a sua volta, non può prescindere dalla complessità del mondo globalizzato e dalla necessità di controllare le forze transnazionali che influenzano la nostra vita quotidiana e infine la nostra salute, attraverso istituzioni e politiche in grado di farlo.

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“Mascherine per tutti e tutti per le mascherine”

Con Saluteglobale.it associazione di promozione sociale, in particolare del diritto alla salute, abbiamo esplorato a fondo il tema delle mascherine, concludendo sulla necessità di una urgente ulteriore revisione delle linee guida della OMS, nonché di indirizzare la ricerca su tecnologie appropriate per una produzione diffusa di dispositivi di protezione individuale, tenendo a mente anche le condizioni delle popolazioni più svantaggiate.

L’uso di mascherine chirurgiche e altri Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) è ormai al centro del dibattito e delle polemiche sulle misure di controllo della pandemia COVID-19. In Italia, anche su questo tema le Regioni e il coordinamento nazionale continuano ad andare in ordine sparso, con ordinanze e decreti contrastanti. L’immagine ripetuta di rappresentanti delle istituzioni che indossano una mascherina, spesso anche in modo improprio (es. lasciando scoperto il naso), mentre sottolineano che l’uso deve esserne riservato ai sintomatici è senz’altro un elemento aggiuntivo nel creare grande confusione.

Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 6 aprile 2020 continuano a sconsigliare l’uso di mascherine chirurgiche in persone asintomatiche, in quanto non ci sarebbero sufficienti prove circa la loro completa efficacia, una posizione seguita fin qui dalle nostre autorità sanitarie nazionali, ma che diverse Regioni italiane, nonché un numero crescente di paesi anche in Europa, non hanno preso affatto in considerazione. Come la Repubblica Ceca che per prima ne ha reso obbligatorio l’uso per tutti e come del resto era stato fatto in Corea del Sud e in Cina, paesi dove peraltro l’uso delle mascherine è da tempo parte del costume e il cui uso generalizzato viene considerato tra gli elementi del successo nel contenimento dell’epidemia.

In particolare, fin dalla prima edizione (29 gennaio 2020) le linee guida dell’OMS sono state tassative nello sconsigliare l’uso di mascherine di stoffa, perché potrebbe addirittura propiziare il contagio attraverso la ridotta efficacia per  un uso scorretto o generando un falso senso di sicurezza. Ciò non ostante, venerdì 3 aprile Mike Ryan, il responsabile dell’OMS per le emergenze  ha ammesso che anche le mascherine fatte in casa potrebbero contribuire a ridurre la diffusione del virus; di fatto contraddetto il 6 aprile dalle nuove linee guida dell’Organizzazione che ha ritenuto di non potersi esprimere con una raccomandazione in assenza di prove definitive né in favore, né contro il loro uso in comunità. L’OMS piuttosto continua a sottolineare il potenziale rischio derivante dall’uso generalizzato di mascherine che potrebbe creare un falso senso di sicurezza, indurre a trascurare le pratiche di igiene delle mani e di distanziamento fisico, comportare costi inutili e sottrarre le mascherine agli operatori in prima linea, soprattutto quando si è a corto di scorte. L’OMS se ne lava dunque le mani e lascia che siano le autorità nazionali a decidere cosa suggerire in merito all’uso di mascherine non omologate e realizzare ulteriori ricerche in tal senso.

Cerchiamo di approfondire.

Soprattutto nell’emergenza la decisione di sanità pubblica non può basarsi esclusivamente sull’insufficienza di prove di efficacia ottimale, quando mancano nel contempo prove ugualmente certe di un potenziale rischio. E’ invece indispensabile adottare una visione di sistema che tenga conto anche di determinanti sociali, culturali, economici e persino etici, oltre che di buon senso.

In effetti, la revisione sistematica della letteratura scientifica non individua studi che indichino un reale pericolo nell’uso diffuso di mascherine chirurgiche nella popolazione generale (“in comunità”) esiste invece un pressoché generale consenso sul ruolo delle mascherine nel ridurre  almeno in parte (in base al materiale o alla combinazione di materiali di cui sono fatte) l’esposizione di persone sane alle infezioni respiratorie e, in misura maggiore, di contrastare la capacità delle persone infette di diffondere l’infezione.

D’altra parte, esiste ormai ampio consenso sul fatto che il coronavirus possa essere trasmesso anche da persone asintomatiche. Risulta dunque evidente che l’uso di una barriera protettiva, per quanto non ottimale, sia per le persone sintomatiche che asintomatiche debba essere universale. Salvo promuoverne un uso corretto ed evitare che esso distragga da altre misure di protezione e controllo.

Resta il problema dell’approvvigionamento. La pandemia ha messo in discussione il funzionamento del mercato globale. Paradossalmente, quando la Cina – principale produttore mondiale –  all’apice dell’epidemia ha chiesto sostegno internazionale, molte delle mascherine vendute in Italia erano “made in Wuhan”. Nel mentre altri paesi produttori bloccavano le loro esportazioni per soddisfare il prevedibile aumento della domanda nazionale. Intanto, in Italia contravvenendo alle raccomandazioni del Ministero della Salute, un esercito di consumatori nel panico è corso ad acquistare ogni tipo di mascherine e respiratori, lasciando i rivenditori e soprattutto le strutture e gli operatori sanitari privi di qualsiasi DPI. Poiché questa mobilitazione non può essere fermata – va compreso che le persone sono mosse principalmente dal loro giusto desiderio di protezione personale – allora dovrebbe essere gestita.

Idealmente le mascherine dovrebbero rispondere a standard di sicurezza e qualità riconosciuti, ma l’attuale pandemia non è affatto una situazione ideale. Quasi ovunque, in Italia e all’estero, la domanda è superiore alla capacità di produzione ivi inclusa la riconversione dell’industria nazionale. Solo in Italia, laddove si volesse assicurare la disponibilità di mascherine usa e getta a tutta la popolazione l’approvvigionamento dovrebbe essere in quantità di almeno un centinaio di milioni di mascherine al giorno, senza considerare l’impatto ambientale del loro successivo smaltimento.

E’ per questo che vanno assolutamente ricercate soluzioni alternative, piuttosto che nascondersi dietro la scarsa efficacia per non promuovere l’uso universale della protezione individuale.

La produzione diffusa a livello comunitario e le mascherine fatte in casa appaiono come una buona soluzione anche per consentire che il materiale omologato di alta qualità e massima protezione sia riservato al personale sanitario e quello dovrebbe essere garantito dalle autorità sanitarie. Questa linea è stata sposata recentemente, con una significativa inversione di rotta, persino dal CDC di Atlanta, il centro di controllo delle malattie infettive degli Stati Uniti d’America, nonché dall’omologo Centro europeo di controllo e prevenzione delle malattie (ECDC).

Peraltro, in assenza di adeguata capacità industriale e/o d’importazione, nei paesi più poveri la produzione diffusa  a livello comunitario e/o domestico potrebbe essere l’unica opzione possibile.

Soluzioni più avanzate e sostenibili vengono anche da nuove tecnologie, come le stampanti 3D a basso prezzo sempre più accessibili in tutto il mondo, che consentono la produzione a livello comunitario di respiratori a perfetta aderenza realizzati in materiale plastico compostabile, ma dove rimane aperta la questione del materiale da utilizzare per l’elemento filtrante, anch’essa da investigare nell’ottica dell’accessibilità e sostenibilità.

Spetta dunque alle istituzioni, in primis alla OMS, individuare e promuovere le migliori soluzioni possibili (materiali, modelli, etc.) e promuovere ulteriori studi approfonditi in base a criteri di efficacia, sicurezza, disponibilità, accessibilità economica e sostenibilità, ovvero di tecnologia appropriata anche in contesti sociali ed economici svantaggiati. Privilegiando modelli riutilizzabili per evitare di contribuire alla generazione di milioni di tonnellate di rifiuti speciali.

È però essenziale, in questo sono tutti d’accordo, accompagnare la promozione dell’uso universale di mascherine con istruzioni rigorose e intense campagne di educazione sulle corrette modalità di produzione, uso, smaltimento e manutenzione, insistendo sempre sulla necessità fondamentale di combinare l’uso di DPI, con il lavaggio frequente delle mani, l’igienizzazione degli ogetti e degli spazi comuni, il distanziamento sociale e le altre misure di prevenzione e controllo dell’infezione.

Infine, l’uso generalizzato di mascherine, la produzione locale e l’approccio cooperativo potrebbero essere anche un ulteriore forma di emancipazione della popolazione e un modo per riscoprire il valore del contributo che tutti possiamo dare per vincere insieme la battaglia, come nell’epica risorgimentale di Dumas « mascherine per tutti e tutti per le mascherine ».

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Febbre Planetaria

Cambiamenti climatici e salute: l’accelerazione dettata dal neoliberismo globalizzato comporta effetti devastanti su ambiente, Casa comune e persone.

L’attuale epidemia di CoVid19 e il cambiamento climatico sono due manifestazioni del medesimo fenomeno di accelerazione del processo di globalizzazione; entrambi richiamano l’attenzione alla necessità di uno sforzo globale coordinato per far fronte alle nuove sfide. Molti altri aspetti legano la salute al cambiamento climatico e, più in generale alla profonda trasformazione dell’ecosistema determinata dal modello di società capitalista e consumista ormai globalizzato.

ATTIVITA’ UMANE

Il cambiamento climatico è il risultato dell’impatto sull’ambiente delle attività antropiche che hanno subito un drammatico aumento soprattutto a partire dalla cosiddetta rivoluzione industriale, e quindi da circa due secoli. Sebbene il cambiamento si manifesti attraverso una molteplicità di fenomeni, (innalzamento dei livelli del mare, eventi atmosferici estremi, riduzione dell’ozono e aumento delle radiazioni UV, ecc.) con diversi effetti sulla salute, l’innalzamento della temperatura atmo-

sferica media è l’indicatore utilizzato per il monitoraggio del cambiamento. Essendo principalmente la conseguenza dell’incremento delle emissioni di gas serra attribuibili ad attività umane, la loro riduzione è l’obiettivo degli interventi necessari a rallentare la crescita della febbre planetaria e quindi l’impatto sulla salute e sulla vita nel pianeta.

Già nel 2001 il Comitato Intergovernativo per lo studio dei Cambiamenti Climatici (Ipcc) segnalava che le emissioni di gas serra prodotte da attività umane stavano crescendo a un ritmo annuo compreso tra lo 0,5% e l’1% e che, con un simile andamento, l’aumento della temperatura media sarebbe stata di circa 4 gradi entro il 2100. L’Oms allora calcolava che il cambiamento climatico aveva causato in un solo anno 160.000 decessi e 5,5 milioni di anni di vita persi a causa di problemi di salute, disabilità o morte prematura, principalmente come conseguenza della malnutrizione, e in minor

misura di malattie infettive (in particolare malaria e diarrea), di ondate di calore e inondazioni. Le stime conservative più recenti per gli anni a venire parlano di almeno il doppio di decessi per ogni anno. È evidente che il calcolo dell’impatto sulla salute dipende dalle variabili che si prendono in considerazione. Infatti, gli effetti del cambiamento climatico sulla salute umane possono essere diretti, indiretti e legati alla trasformazione dei sistemi sociali.

DANNI

I primi impatti sono quelli causati dagli eventi estremi, come ondate di calore, inondazioni, repentini abbassamenti della tempe- ratura, uragani, ecc., ma anche dall’espandersi del “buco dell’ozono” e della conseguente aumentata esposizione a raggi UV. Oltre alle morti e alle lesioni gravi registrate in eventi catastrofici, gli effetti sulla salute includono l’aumentata incidenza di malattie cardiovascolari, malattie respiratorie, alcuni tipi di cancro, disturbi mentali. Gli effetti indiretti sono invece da collegare alla trasformazione dell’ecosistema causato dal cambiamento climatico, come ad esempio l’elevarsi della temperatura media che permette la diffusione di malattie infettive trasmesse da insetti vettori (malaria, dengue, febbre gialla, ecc.) in aree geografiche il cui clima precedentemente più freddo non ne consentiva la riproduzione. Un’analoga causa indiretta è rappresentata dalla modificata salinità di acque dolci dovuta a cicloni e piogge, nonché dall’innalzamento dei mari che permette ad esempio l’aumentata concentrazione di vibrioni colerici e la ridotta potabilità dell’acqua. Altrove l’acqua verrà a scarseggiare per il seccarsi delle falde acquifere. Infine, l’impatto sulla salute mediato dalla trasformazio- ne dei sistemi sociali interessa fenomeni come l’al- terata produzione agricola, alla base di denutrizione e insicurezza alimentare; la migrazione forzata dai determinanti ambientali, quali la siccità o l’innalzamento dell’acque marine.

I cambiamenti climatici pongono anche serie questioni di equità a livello globale. Le popolazioni, che stanno sperimentando il più significativo aumento di malattie attribuibili all’innalzamento delle temperature negli ultimi 30 anni, sono le meno responsabili nelle emissioni di gas a effetto serra. Le stime dell’Oms mostrano che il 99% del carico di malat- tia dovuto al cambiamento climatico, così come l’88% di quelle a carico dei bambini sotto l’età di 5 anni, è nei paesi più poveri contribuendo ad accrescere la diseguaglianza in termini di salute globale. Anche l’equità intergenerazionale è messa a repentaglio: probabilmente le generazioni future saranno esposte a malattie ambientali mai viste prima.

QUALE SVILUPPO?

Un’azione globale è dunque indispensabile per cercare di limitare il cambiamento e mitigarne l’impatto.

A partire dal 1992 quando a Rio de Janeiro, si tenne il cosiddetto “Summit della Terra”. In quell’occasione si adottò la Convenzione quadro sul cambiamento climatico, con l’obiettivo di prevenire ogni “pericolosa” interferenza tra attività umana e il sistema climatico. La Convenzione, che entrò in vigore due anni dopo, è stata ratificata da 197 paesi, quelle stesse “Parti firmatarie” della Convenzione si sono tornate a riunire anno dopo anno nelle cosiddette Confe- rences of Parties (Cop). Nella ventunesima sessione (Cop 21) svoltasi nel 2015, con l’ “Accordo di Parigi” ratificato nel giro di un anno da 153 paesi, è stato fissato l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi Cel- sius (rispetto ai livelli pre- industriali) con l’impegno a limitarne l’aumento a 1,5 gradi, riducendo le emissioni atmosferiche, con azioni a difesa del clima; aggiustamenti in risposta alle trasformazio- ni climatiche e il loro impatto; assistenza finanziaria ai paesi con maggiori difficoltà per aiutarli a recuperare, preservare e sviluppare un ambiente pulito a beneficio delle generazioni future. In tal senso, lo stesso accordo richiamava le Parti a rispettare e promuovere il loro impegno su diritti uma- ni, menzionando specifica- mente il diritto alla salute. L’allora direttore generale dell’Oms, Margareth Chan, sottolineando l’inestricabile collegamento tra salute e cli- ma, qualificò l’accordo non solo come un indispensabile trattato per salvare il pianeta da un danno grave e irre- versibile, ma come un vero e proprio trattato di sanità pubblica, in grado di salvare milioni di vite umane dato

l’inestricabile collegamento tra salute e clima. Purtroppo, gli impegni internazionali sono alla mercé dei governi firmatari. Con l’avvento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, quel paese – insieme alla Cina, il massimo inquinatore mondiale – ha dichiarato il proprio ritiro dall’accordo, gettando la comunità inter- nazionale nello sconforto. Per quanto celebrati come un successo della diplomazia internazionale anche que- gli accordi appaiono insufficienti e appare evidente la necessità di un radicale cambiamento di rotta del modello di sviluppo.

Da tempo, per far fronte all’emergenza, da più parti si insiste sulla relazione tra cambiamento climatico e salute, richiamando la necessità di porre la salute al centro di tutte le politiche in tutti i settori (trasporti, abitazioni, energia, agricoltura) e a tutti livelli (nazionale, regionale, internazionale) e rafforzare nel contempo i sistemi sanitari per affron- tare le crescenti sfide.

Ma il cambiamento climatico non è che un aspetto della più generale trasformazione dell’ecosistema causato da un modello socio-economico insostenibile. Infatti, il modello di sviluppo dominante, ponendo indiscriminatamente l’accento sulla crescita economica e quindi sull’incessante aumento dei consumi su scala globale, è alla base di quella trasfor- mazione, con crescente e insostenibile sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili e un devastante inquinamento ambientale, con un impatto sulla salute incommensurabilmente più grande di quello misurato solo in relazione al cambia- mento climatico.

Anche la pandemia di CoVid19 è figlia della globalizzazione di questo modello di società. Quando ce ne renderemo conto potrà essere troppo tardi.

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Cooperative approaches – A new review

Dominique Bénard, possibly one of the major experts (certainly among those with the longest experience) of the scout educational method, has long devoted himself both theoretically and in practice (as a consultant to associations involved in education and youth promotion) to deepen the pedagogical cooperative approaches beyond scouting.

In September he launched a new bimonthly magazine “Cooperative apporaches” published in four languages (French, English, Spanish and Italian), inviting me to edit the Italian edition. Each issue of the magazine can be purchased individually or you can chose an annual subscription (six issues).

I am sure “Cooperative approaches” will be very useful and stimulating for all those who work, study or simply have an interest in youth education, adult education, management of organizations and active citizenship.

Subscriptionshttps://approchescooperatives.com/fr/categories/revue-bimestrielle-bimonthly-review/abonnements-subscriptions

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“Misa Campesina” ci ha fatto ritrovare

di Giorgio Bianchi

Era il mese di giugno del 1982 quando quel giorno, dopo un viaggio di almeno sei ore sotto la pioggia a bordo di una camionetta, per strade sterrate sulle montagne del Nicaragua, raggiunsi il piccolo ospedale di Waslala. Era una costruzione in legno e bambù piuttosto mal ridotta e lì conobbi Eduardo Missoni, che già da tre anni lavo-rava come medico volontario nei villaggi del Nicaragua, un Nicaragua appena uscito da una rivoluzione vittoriosa che aveva lasciato lutti e sofferenze. Rimasi pochi gior-ni, ma furono giorni intensi, di quelli che ti cambiano la vita. Di lui dopo la mia partenza, non seppi più nulla. Dovevano passare trentasette anni perché casualmente mi capitasse tra le mani un li-bro il cui titolo e l’autore attirarono subito la mia attenzione. “Misa campesina” di Eduardo Missoni. Scorrendo quelle pagine era come ritrovarmi, profondamente emozionato, immerso nell’atmosfera di quel tempo. Il libro racconta gli eventi che scandirono il tempo dei tre anni che Eduardo rimase in Nicaragua. Scopre e condivide giorno dopo giorno, un mondo dove la vita scorre in poveri villaggi di fango, abitati da un’umanità provata dalla guerra e dalla violen-za ma non abbandonata dalla speranza di un futuro migliore. Il lavoro nei campi, le feste, la religiosità più semplice, nascite e morti, l’amore, tutto visto con gli occhi di un medico che si prodiga ogni giorno, tra difficoltà inimmaginabili, povertà e condi-zioni igieniche disastrose a curare, con i pochi mezzi disponibili, i mali di quella comunità.Da quelle pagine le figure che emergono sono vive, sono reali, sono persone, ognuna con la sua storia. Mi pare quasi di vedere i loro volti: Padre Jorge, Flora, Domingo, Erlinda e tanti altri. I centri di salute sono il punto di riferimento per la popolazione, ma sovente tocca recarsi in villaggi isolati per sentieri che solo a cavallo si possono raggiungere, sotto la minaccia delle bande controrivoluzionarie che, sostenute dagli Stati Uniti d’America, tentano di rovesciare il governo sandinista. Ci sono giorni di sconforto per una vita che non si é potuta salvare e altri in cui si incomincia a crede-re ai miracoli. Ma sono le nascite che costellano gli eventi. Nuove vite che vengono al mondo, sovente tra molte difficoltà, ma che fanno sperare nel futuro. Non sono più ritornato in Nicaragua. Sapevo come stava cambiando con gli anni la vita, in quel paese, vittima di un neoliberismo trionfante dopo la caduta del sandini-smo. Sapevo che non avrei più ritrovato il mio Nicaragua, quel Nicaragua che aveva fatto sognare i molti che l’avevano conosciuto. Nelle ultime pagine del libro, Eduar-do racconta del suo ritorno dopo venti anni e trova tutto cambiato. Sono pagine permeate da una profonda malinconia per un sogno svanito col mutare degli eventi. Avevo fatto bene non ritornare e rimanere così col mio sogno. Sono grato a Eduardo per avere scritto questo libro. E’ un libro che cattura, da leg-gere tutto d’un fiato, che commuove profondamente, in cui ogni pagina rivela un mondo di persone semplici che lottano per una vita di stenti, una vita condivisa da Eduardo giorno dopo giorno, con amore.

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La globalizzazione della salute è un dato di fatto. Ricordatelo

Per questo per tutelarci serve un approccio multidisciplinare con una strategia che unisca medici, manager e policymaker

Articolo apparso sul numero di settembre di Sarfatti25, la rivista dell’Università Bocconi.

Le profonde trasformazioni prodotte in poco meno di un secolo dall’accelerazione del processo di globalizzazione permeano e trascendono i confini e i meccanismi di controllo na- zionali ben oltre l’intensificazione dei collegamenti e delle tradizionali relazioni tra stati, ridefiniscono la geografia delle relazioni sociali e richiedono nuove categorie di analisi e intervento anche nel campo della governance della salute e delle politiche sanitarie.

Le dimensioni planetarie dei problemi ambientali, sociali ed economici cui si assiste e di cui la salute è un fenomenale indicatore, richiedono che le politiche pubbliche con un impatto sulla salute delle popolazioni tengano conto della natura globale e intersettoriale dei determinanti.

Gli studi di salute globale si differenziano dai più tradizionali studi di sanità pubblica internazionale (ovvero relativi a iniziative di carattere sanitario negoziate e concordate nell’ambito delle relazioni tra Stati nazionali), e ancor più nettamente da operazioni puramente cosmetiche tese a ridefinire come attività di salute globale la cosiddetta medicina tropicale e le più diverse attività sanitarie svolte nell’ambito di programmi di studio o di aiuto allo sviluppo in Paesi terzi. L’approccio di salute globale guarda alla salute nella sua accezione più ampia, non solo come condizione fisica e mentale dell’individuo, ma anche nella sua correlazione con lo stato di benessere sociale. Si tratta di un approccio necessariamente interdisciplinare che affronta il tema in una dimensione transnazionale e globale, planetaria, dove i determinanti sociali, ambientali, economici e politici s’intersecano con crescente complessità, interagendo inevitabilmente con i sistemi nazionali e locali.

Per fare solo qualche esempio, si pensi alla trasformazione dell’ecosistema e ai cambiamenti climatici, dove nonostante l’evidenza degli effetti dei rischi ambientali sulla salute, gli impegni sottoscritti a livello globale tardano ancora le necessarie politiche ed investimenti per ridurne l’impatto, con conseguente inesorabile crescita dei costi sociali ed economici delle malattie dovute all’inquinamento.

Il facile diffondersi di epidemie, l’impatto sulla salute e l’accesso alle cure degli accordi di libero commercio, la salute dei migranti, le conseguenze di un’incontrollata circolazione di informazioni riguardanti la salute sulle reti sociali, sono altri esempi di importanti temi di salute globale. Affinché l’obiettivo di «benessere e salute per tutti, a tutte le età», iscritto nell’agenda globale per lo sviluppo sostenibile, non resti ancora una vol- ta pura retorica, è indispensabile un sostanziale cambiamento di paradigma. È necessario fare del- la salute umana e dell’intero ecosistema il perno dell’azione politica, sociale ed economica a tutti i livelli, globale, nazionale e locale, assicurando opportune interazioni e alleanze tra quelli, affin- ché davvero «nessuno resti indietro».

All’aumento del peso delle malattie croniche contribuisce in modo determinante anche il consumo di cibi ultraprocessati, promosso da aggressive strategie produttive e commerciali che solo un’azione transnazionale congiunta di tutti i settori della società può efficacemente contrastare. In tal senso la Convenzione quadro per il controllo del tabacco, entrata in vigore nel 2005, costituisce un importante modello di riferimento.

In tal senso sia i medici sia i manager e i policy maker interessati alla salute, indipendentemente dal loro ambito di attività, dovrebbero dotarsi delle competenze di salute globale.

Per approfondire

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“Salute per tutti entro l’anno 2000”. Quaranta anni dopo Alma-Ata

(pubblicato su rivista Micron il 18.8.2019)

Alma-Ata 12 settembre 1978 – Conferenza internazionale sulle cure primarie per la salute (Primary health care)

La salute definita come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente assenza di malattia» è riconosciuta dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come un «diritto fondamentale di ogni essere umano senza distinzione di razza, religione, credo politico, condizione economica o sociale» (WHO, 1948), un diritto sancito anche dalla Costituzione italiana all’articolo 32. Nel 1977, la trentesima Assemblea Mondiale della Salute, massimo organo di governo della OMS, adottò l’obiettivo della “Salute per tutti entro l’anno 2000” e l’anno successivo, ad Alma-Ata (nell’odierno Kazakistan), con solenne dichiarazione tutti i governi del mondo individuarono nella Primary Health Care (PHC) la strategia per il raggiungimento di quell’impegnativo traguardo (WHO, 1981).
La Dichiarazione di Alma-Ata individuava le cure primarie per la salute quale “parte integrante” del sistema sanitario di ciascun paese, ma soprattutto legava indissolubilmente l’obiettivo della salute all’“intero sviluppo sociale ed economico” della collettività, in una visione basata sull’equità, la partecipazione comunitaria, l’attenzione centrata sulla prevenzione, la tecnologia appropriata ed un approccio intersettoriale ed integrato allo sviluppo (Alma-Ata, 1978).
«Per i più, fu una rivoluzione nel modo di pensare» avrebbe commentato trent’anni dopo il Dr. Mahler, che come direttore generale dell’OMS in quegli anni aveva guidato l’iniziativa. «La Salute per tutti è un sistema di valori con le cure primarie per la salute come sua componente strategica. Le due cose vanno insieme. Bisogna sapere dove si vuole che ci portino quei valori, per andare in quella direzione dovevamo usare la strategia della PHC» (WHO, 2008).
L’attuazione della PHC avrebbe richiesto il riorientamento dei sistemi sanitari in quanto a politiche, strategie e allocazione delle risorse. La necessità di privilegiare le aree rurali e quelle urbane maggiormente deprivate, le risposte a bisogni primari dei più poveri, la prevenzione e la medicina di base, si scontrava con le resistenze derivanti dall’organizzazione sociale e dalla distribuzione del potere in molti paesi in via di sviluppo.
L’élite economica, politica e intellettuale spingeva per servizi curativi di tipo ospedaliero, ad alta specializzazione, costosi e non sostenibili. L’orientamento di quella élite e dei governi non sfuggiva alle logiche di una professione medica più attenta agli aspetti clinici delle malattie, che a quelli sociali.
Il reddito dei medici, la loro promozione sociale e riconoscimento professionale erano – e sono ancora – legati al livello di specializzazione e alla sofisticazione tecnologica, piuttosto che al servizio reso come medici di sanità pubblica o medici di base nelle aree rurali e più degradate. D’altra parte, la formazione universitaria dei medici era lontanissima dall’innovazione di competenze (conoscenza, esperienza e motivazione) che la visione di Alma-Ata richiedeva. Come scriveva Giulio Maccacaro, in quegli anni: «Un medico di base capace di inserirsi utilmente in una comunità urbana o rurale, di averne cura e di intenderne i problemi di malattia e difenderne il diritto alla salute, non c’è corso di laurea o scuola di specialità che lo produca».
Di fronte alla complessità del mettere in atto le trasformazioni richieste, sulla spinta di una riunione tenutasi appena un anno dopo Alma-Ata tra responsabili della Banca Mondiale, di USAID, dell’UNICEF, della Fondazione Ford e della Fondazione Rockefeller, che ospitò l’evento nel proprio centro di Bellagio (Italia) (Brown et al, 2006), si sviluppò una corrente di pensiero – immediatamente sostenuta da alcuni settori accademici e divenuta poi dominante – che tradusse quell’innovativa visione in un approccio riduttivo, denominato Selective Primary Health Care e consistente nell’applicazione selettiva di misure «dirette a prevenire o trattare le poche malattie che sono responsabili della maggiore mortalità e morbosità nelle aree meno sviluppate e per le quali esistano interventi di provata efficacia» (Walsh e Warren, 1979).
I Programmi per far fronte a singole malattie o condizioni identificate in base a quei criteri, sarebbero stati decisi a livello centrale e poi realizzati in tutto il paese (e in tutto il mondo) con le stesse modalità e, spesso, con risorse rigidamente assegnate.
Questo approccio “verticale” rese anche scarso o inesistente il coordinamento tra i diversi programmi, fino al punto di costituire separate istituzioni per ciascun programma, come nel caso – comune in quegli anni – di enti autonomi speciali per l’eradicazione della malaria. L’applicazione di strategie selettive si tradusse nella riorganizzazione dei sistemi sanitari per “programmi” verticali (immunizzazioni, pianificazione familiare, controllo di singole malattie, etc.) e, quindi, nella disarticolazione dell’azione di sanità pubblica, con moltiplicazione di costi e spreco di risorse.
In quel contesto, con il manifestarsi della crisi debitoria all’inizio degli anni ‘80 e l’attacco radicale verso le politiche di aiuto, dovuto all’affermarsi delle tesi neoliberiste promosse dalle amministrazioni Reagan negli USA e Thatcher nel Regno Unito, si inserirono le ricette macroeconomiche e i Piani di aggiustamento strutturale (PAS) imposti dagli Organismi finanziari internazionali (FMI e Banca Mondiale) chiamati a contenere la crisi. L’assistenza finanziaria ai paesi debitori e l’accesso a nuovi crediti fu legata all’applicazione di misure macroeconomiche tese ad assicurare il rispetto degli obblighi contratti dai singoli paesi nei confronti dei creditori privati.
La ricetta, conforme all’idea neoliberista, consisteva nella riduzione dell’intervento diretto dello Stato nei settori produttivi e ridistribuitivi dell’economia, con la riduzione radicale della spesa pubblica, la privatizzazione dei servizi socio-sanitari e l’introduzione del pagamento delle prestazioni nel sistema pubblico, la liberalizzazione dei mercati, il taglio dei salari e l’indebolimento dei meccanismi di protezione del lavoro. Come conseguenza di quelle misure di aggiustamento, si assistette al peggioramento delle condizioni di vita e di salute di ampie fasce della popolazione.
Intanto, altri attori iniziavano ad affacciarsi sulla scena sanitaria globale. Tra questi, le società multinazionali (inizialmente del settore farmaceutico e assicurativo), filantropie globali – in particolare la Bill and Melinda Gates Foundation – e nuove forme di partenariato pubblico e privato, le Global Public Private Partnerhips (GPPP). L’epidemia di HIV/AIDS aveva riportato la salute nell’agenda internazionale e nuovi fondi per la sanità, ma con l’attenzione focalizzata su quella e poche altre malattie infettive (oltre all’HIV/AIDS, soprattutto la malaria e la tubercolosi).
Le iniziative per il controllo di malnutrizione, diarrea o malattie respiratorie acute, cui era stata dedicata molta attenzione in passato, sembravano accantonate. Senza parlare della totale disattenzione verso il crescente peso delle malattie croniche, indissolubilmente legate alle trasformazioni sociali e ambientali in atto.
La Dichiarazione del Millennio, sottoscritta da tutti i Capi di Stato e di governo nel settembre del 2000 alla conclusione dell’omonimo vertice, condusse alla identificazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) che, presi singolarmente, contribuirono alla riaffermazione dell’approccio “verticale”.
Tra gli 8 OSM, quelli sanitari occuparono uno spazio significativo. Fissato il traguardo al 2015, si stabilì tra l’altro di ridurre di due terzi la mortalità nei minori di cinque anni (OSM 4) e di tre quarti la mortalità materna (OSM 5), ma l’attenzione e i finanziamenti rimasero prevalentemente centrati sul controllo dell’epidemia di HIV/AIDS, della malaria e di altre malattie infettive (OSM 6) con il proposito di ridurne alla metà il numero di casi. L’OSM 8 invece riguardava il coinvolgimento di nuovi attori attraverso lo sviluppo di un forte partenariato con il settore privato e con le organizzazioni della società civile nel ricercare lo sviluppo e l’eradicazione della povertà.
Ben presto, dall’idea di partenariato inteso come una responsabilità sociale per lo sviluppo condivisa tra paesi avanzati e meno avanzati, e poi estesa a includere il settore privato commerciale e la società civile, si passò alla traduzione di quel concetto in nuovi assetti organizzativi e alla costituzione di vere e proprie joint-ventures, partenariati globali tra il settore pubblico e il settore privato (Global Public-Private Partnerships, GPPP): iniziative e organizzazioni globali, più o meno autonome rispetto alle esistenti istituzioni intergovernative, dedicate a tematiche specifiche, finanziate e gestite congiuntamente.
Il prototipo di quel modello fu probabilmente l’Alleanza GAVI (Global Alliance on Vaccines and Immunizations, GAVI) lanciata nel 2000 sulla spinta del finanziamento iniziale (750 milioni di dollari) della Fondazione Bill & Melinda Gates. Seguì la creazione del Fondo Globale per la lotta all’HIV/ AIDS, la tubercolosi e la malaria (GFATM) promosso dai G8 al vertice di Genova nel 2001.
Il modello GPPP divenne la tendenza dominante nel panorama della cooperazione internazionale. Per ogni problema e per ogni malattia si proponeva una nuova organizzazione, un nuovo gestore indipendente a partecipazione pubblica e privato, ma le risorse aggiuntive erano in massima parte pubbliche. Nuove organizzazioni comportarono nuovi costi di struttura e di personale (a tariffe internazionali) e, come dimostrò da subito il Fondo Globale, anche nuove procedure burocratiche con costi addizionali sulle già precarie risorse delle istituzioni nei paesi in via di sviluppo. Senza considerare l’indebolimento dei sistemi sanitari derivante da un approccio selettivo per malattie e per progetti avulsi da un piano sanitario nazionale.
Mentre l’orientamento prevalente continuava a puntare su meccanismi di mercato per trovare risorse per la sanità alimentando la frammentazione dei sistemi sanitari e l’incremento dei costi di transazione per la messa in atto di misure efficaci, l’evidenza di quei limiti portava l’attenzione verso approcci di sistema per garantire un più vasta copertura sanitaria alle popolazioni più svantaggiate.
Nel 2008 la pubblicazione quasi contemporanea del Rapporto annuale dell’OMS dedicato alla PHC e del Rapporto della Commissione sui determinanti sociali della salute, in coincidenza con il 30mo anniversario della Dichiarazione di Alma-Ata, rilanciò una visione più olistica.
Il primo metteva in evidenza come l’attenzione centrata sull’assistenza ospedaliera, la frammentazione derivante dalla moltiplicazione di programmi e progetti e la pervasiva commercializzazione dell’assistenza sanitaria avessero allontanato i sistemi sanitari dalla loro funzione, riproponendo la necessità di ripartire da equità e copertura universale, cure primarie e sistemi centrati sui bisogni delle persone, la promozione di politiche pubbliche (in altri settori) per la salute, e la riaffermazione del principio della responsabilità governativa della salute della popolazione (WHO, 2008).
Il rapporto della Commissione sui determinanti sociali esaminava le iniquità in salute – le disuguaglianze evitabili – e le forze politiche, sociali ed economiche che le determinano, raccomandando politiche ispirate a principi di giustizia sociale e di equità in salute, da sostenere con un’azione globale sostenuta da governi, società civile, dall’OMS e da altre organizzazioni internazionali (CSDH, 2008).
Prima al vertice di Toyako (2008) poi a L’Aquila, i G8 spostarono l’attenzione sul necessario rafforzamento dei sistemi sanitari proponendo «un approccio integrale e integrato per il raggiungimento degli obiettivi del Millennio inerenti la salute … l’accesso universale ai servizi sanitari, con particolare riguardo alla PHC» e riconoscendo «la salute come un obiettivo di tutte le politiche» (G8 2009).
Nel 2010, il Rapporto dell’OMS sulla salute mondiale fu dedicato alla “copertura universale” (WHO, 2010). L’approccio intersettoriale allo sviluppo e, con esso, alla promozione della salute veniva riproposto con forza il 25 settembre 2015 al vertice dei capi di governo convocato a New York dalle Nazioni Unite (UN, 2015). La «agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile» impegnava i governi all’adozione di un set di 17 obiettivi «indivisibili» e 169 mete universali per porre fine, entro il 2030, alla povertà «una volta per tutte, per tutti»; per combattere le diseguaglianze; per assicurare una protezione durevole del pianeta e delle sue risorse; creare le condizioni di una crescita «sostenibile, inclusiva e sostenuta» e di «prosperità condivisa» (UN, 2015).
L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 3 punta a “salute e benessere per tutti a tutte le età” con diversi traguardi, tra cui la “copertura sanitaria universale” che dovrà assicurare che tutti gli individui e le comunità ricevano i servizi sanitari di cui hanno bisogno senza incorrere in difficoltà finanziarie. La copertura include tutto lo spettro dei servizi essenziali, dalla promozione della salute alla prevenzione, la terapia, la riabilitazione e le cure palliative. Tuttavia, la copertura sanitaria universale – su cui sembra concentrarsi la massima attenzione dell’OMS, che vi ha dedicato nel 2019 la giornata mondiale della salute (7 aprile) – da sola non interpreta appieno lo spirito di Alma-Ata. Infatti, si centra sull’accesso ai servizi trascurando la centralità del territorio e della comunità, nonché dei determinanti sociali della salute.
Nelle celebrazioni del quarantesimo anniversario di Alma-Ata, tenutasi ad Astana, odierna capitale del Kazakistan, dopo aver sottolineato che «la frammentazione e segmentazione dei sistemi sanitari è una ricetta per il fallimento», Clarissa Etienne ha implorato: «Please, please, please – tre volte “per piacere” – non riducete la salute ad un pacchetto minimo di servizi essenziali… non possiamo ripetere gli errori del passato, promovendo processi di riforma che indeboliscono il governo della sanità e che riducono le cure primarie ad un pacchetto minimo di servizi per i poveri» (Etienne, 2018).
Con la spinta allo smantellamento dei sistemi di sanità pubblica, cui si assiste pressoché ovunque, il rischio è reale. I sistemi sanitari sono soggetti a forze e influenze poderose che spesso sopraffanno la formulazione razionale delle politiche sanitarie. Queste forze includono una sproporzionata attenzione verso l’assistenza specialistica, la frammentazione in una molteplicità di programmi, progetti e istituzioni in competizione tra loro e la pervasiva commercializzazione dell’assistenza sanitaria in sistemi inadeguatamente regolati (WHO, 2010).
Ma quelle non sono le sole forze che agiscono sui sistemi sanitari limitandone l’uso appropriato delle risorse, il raggiungimento degli obiettivi e la sostenibilità. Insieme alla crescita e al progressivo invecchiamento della popolazione, con l’accelerazione del processo di globalizzazione e l’affermarsi dell’ideologia della crescita, dell’egemonia del mercato e della società dei consumi, si è assistito alla precarizzazione del lavoro, alla riduzione ai minimi termini dello stato sociale, alla mercificazione dei beni essenziali ed è stato messo in crisi l’intero eco-sistema (CSDH. 2008).
La salute è messa costantemente a repentaglio da cicli produttivi agricoli e industriali altamente contaminanti. L’intero sistema alimentare è sovvertito anche da un marketing sempre più aggressivo che spinge verso consumi dannosi per la salute. Come conseguenza aumentano le malattie croniche e degenerative (obesità, diabete, malattie cardiovascolari, cancro, malattie mentali e neurodegenerative, ecc.) con quadri sempre più complessi di multimorbosità. Mentre la denutrizione affligge ancora gran parte dell’umanità ed è tornata a crescere e la sfida delle malattie infettive è tutt’altro che superata.
Le infezioni resistenti agli antibiotici crescono a un ritmo molto superiore alla capacità dell’industria di sviluppare nuovi farmaci e malattie che si credevano relegate al passato tornano drammaticamente d’attualità. Il mercato spinge per soluzioni farmacologiche e tecnologiche sempre più costose; in una società culturalmente medicalizzata e farmacologizzata anche la iatrogenesi pesa sul sistema, compiendosi la Nemesi medica di cui già parlava Ivan Illich (1974).
In un simile contesto, per la sostenibilità dell’obiettivo di “salute per tutti a tutte le età” (OSS 3) si richiede una drastica inversione di rotta, un cambiamento di paradigma ormai improcrastinabile.

[Pubblicato in originale su micron n.43]


Bibliografia

Alma-Ata (1978). Primary Health Care. Report of the International Conference on Primary Health Care. Alma-Ata, USSR, 6-12 September.

Brown T.M., Cueto M., Fee E. (2006), “The World Health Organizationand the transition from ‘international’ to ‘global’ public health”, American Journal of Public Health, 96(1), 62-72.

CSDH (2008). Closing the gap in a generation: Health equity through action on the social determinants of health. Geneva: World Health Organization. http://whqlibdoc.who.int/publications/2008/9789241563703_eng. pdf ?ua=1

Etienne, C. (2018). Closing remarks at Global Conference on Primary Health Care – Astana, Kazakhstan 25-26 October.

G8 (2009), G8 Leaders Declaration. Responsible Leadership for a sustainable future. L’Aquila. www.g8.utoronto.ca/summit/2009laquila/2009-declaration.html

Illich I. (1974). Nemesi medica. L’espropriazione della salute.

Maccacaro G. (1971). Una facoltà di medicina capovolta, intervista. Tempo Medico, novembre 1971, n.97.

UN (2015). Resolution adopted by the General Assembly on 25 September 2015. Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development. A/Res/70/1. 21 October. New York: United Nations.
http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/ RES/70/1&Lang=E

WHO (1948). Constitution of the World Health Organization. Geneva.

WHO (1981). Global Strategy for Health for All by the Year 2000. World Health Organization. Geneva

WHO (2008). The World Health Report 2008 – primary Health Care (Now More Than Ever). Geneva: World Health Organization. https://www.who. int/whr/2008/en/ (Last accessed 25.11.2018).

WHO (2010). The World Health Report 2010. Health systems financing: the path to universal coverage, World Health Organization, Geneva.

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40 anni fa trionfava la Rivoluzione sandinista

Le ragazze “brigadistas de la alfabetización” in una dell comunità del comune di Terrabona

Nel quarantesimo anniversario della Rivoluzione sandinista in Nicaragua, torno a proporre la lettura del mio libro “Misa campesina” (che nella edizione in spagnolo reca il sottotitolo “Un medico italiano nel Nicaragua rivoluzionario”.

Ebbi la fortuna di poter condividere gli anni più belli e pieni di speranza di quel processo rivoluzionario di ricostruzione, avviato dopo decenni di feroce dittatura somozista e una lunga guerra d’insurrezione. Il libro che racconta quella esperienza, fu pubblicato per la prima volta in italiano nel 2001 (ci fu poi una seconda edizione). Dieci anni dopo, nel 2011 ne pubblicai la traduzione in spagnolo. Nell’introduzione a quella nuova edizione riflettevo sulla nuova situazione del paese.

“Quando arrivai la prima volta a Terrabona non c’era nemmeno la luce elettrica, però la strada era illuminata dall’entusiasmo di migliaia di giovani impegnati nella costruzione di una società libera, non solo dalla dittatura, ma dalla miseria, dalla fame, dall’analfabetismo, dalle malatie evitabili. Un impegno che molti giovani di altri paesi condividevamo, perché quel sogno era anche il nostro. TUTTO E’ CAMBIATO”.

Dal 2011 la situazione è cambiata ulteriormente ed è molto triste per quanti che come me condivisero con entusiasmo – ma non ad occhi chiusi – il progetto rivoluzionario, fino a considerare il Nicaragua come una seconda patria, vedere come il Paese sia tornato sotto il regime autoritario di una nuova dinastia familiare.

Vi invito a riprendere la lettura del mio libro e scoprire come alcuni dei segnali di una potenziale deviazione del processo erano già palpabili fin dai primi anni.

El libro si può richiedere in libreria o acquistare online

Potete anche leggere la prefazione di Isabel Allende Bussi , le recensioni e i commenti di molti lettori

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Global Health Governance and Policy. An Introduction.

Global Health Governance and Policy outlines the fundamentals of global health, a key element of sustainable development. Taking an interdisciplinary approach, it explores the relationship between the globalization process and global health’s social, political, economic and environmental determinants. It points the attention to the actors and forces that shape global policies and actions with an impact on peoples’ health in an increasingly complex global governance context. Topics discussed include:

  • The relationship between globalization and the determinants of health
  • The essentials of global health measurements
  • The evolution of public health strategies in the context of the global development agenda
  • The actors and influencers of global health governance
  • The role of health systems
  • The dynamics and mechanisms of global health financing and Development Assistance for Health
  • Career opportunities in global health governance, management and policy

Looking in depth at some of the more significant links between neoliberal globalization, global policies and health, Global Health Governance and Policy: An Introduction discusses some specific health issues of global relevance such as changes in the ecosystem, epidemics and the spread of infectious diseases, the global transformation of the food system, the tobacco epidemic, human migration, macroeconomic processes and global financial crisis, trade and access to health services, drugs and vaccines, and eHealth and the global “health 4.0” challenge.

Written by a team of experienced practitioners, scientists and teachers, this textbook is ideal for students of all levels and professionals in a variety of disciplines with an interest in global health.

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Lettera aperta – A proposito di evidenza pubblica e trasparenza: la nomina del Direttore AICS

Venerdì 7 settembre nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito web del Ministero degli affari esteri e cooperazione internazionale (MAECI) è stata resa pubblica la rosa dei 3 nomi che saranno presentati al Ministro affinché ne proponga uno al Presidente del Consiglio per la nomina a Direttore dell’Agenzia italiana di cooperazione allo sviluppo (AICS). La rosa proposta desta non poche perplessità, sembra riproporre noti intrighi di Palazzo e lascia di fatto poche alternative al Ministro.

Il 5 di marzo di quest’anno, all’indomani delle elezioni politiche e a metà del proprio mandato quadriennale, la Direttrice dell’AICS, Laura Frigenti, presentava le dimissioni; formalmente per «ragioni di carattere personale e la prolungata distanza dalla famiglia», ma non possono essere escluse altre ragioni che senza eccessive dietrologie, ma con sufficiente conoscenza dell’ambiente potrebbero essere ricercate piuttosto “nelle resistenze e nelle diffidenze” del corpo diplomatico “che hanno imposto all’AICS un braccio di ferro continuo con la DGCS” mancando quella stessa Direzione della “capacità di impossessarsi del ruolo politico che la legge le attribuisce, perseverando così nei tentativi che impediscano all’Agenzia di assumere lei quel ruolo” come scriveva Carlo Ciavoni su Repubblica.it  lo scorso 3 aprile. Un ruolo, quello politico, che chiaramente non spetta all’Agenzia, cui invece la Legge attribuisce la fondamentale responsabilità di gestione e implementazione delle iniziative di cooperazione, peraltro con diverse criticità normative, che già ebbi modo di analizzare in dettaglio in passato.[i]

Il 30 di marzo la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS) del MAECI pubblicava l’avviso pubblico «per la selezione di candidature da sottoporre al Ministro per gli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ai fini della nomina del direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo». Evidentemente era urgente riempire il vuoto lasciato alla guida dell’AICS.

La legge n.125/2014 di riforma della Cooperazione allo Sviluppo e istitutiva dell’AICS stabilisce che: “Il direttore dell’Agenzia è nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, a seguito di   procedura   di selezione con evidenza pubblica improntata a criteri di trasparenza … tra persone di particolare e comprovata qualificazione professionale e in possesso di documentata esperienza in materia di cooperazione allo sviluppo.”

Lo statuto dell’AICS stabilisce inoltre che le candidature alla posizione di Direttore sono valutate da una commissione esaminatrice nominata dal Ministro, che all’esito del processo di selezione “formula al Ministro una motivata proposta con almeno tre e non oltre cinque nominativi”.

Da più parti si diceva che la nomina sarebbe dovuta avvenire entro la fine di giugno. Di fatti il termine per la presentazione delle candidature fu stabilito al 4 di maggio. Il 7 maggio veniva pubblicato l’elenco delle 56 persone che avevano fatto domanda, mentre la Commissione esaminatrice fu costituita il 18 maggio.

Considerando il carattere tecnico-politico della nomina era altrettanto evidente che si sarebbe dovuto aspettare la costituzione del nuovo governo a seguito degli esiti delle elezioni, ma certamente non per procedere nella selezione. Ciononostante, appena il 22 giugno, a poco più di un mese della nomina della Commissione veniva reso noto l’elenco di 39 candidate/i ammesse/i al colloquio.

I colloqui di selezione si sono svolti a partire dal 6 luglio e si sono conclusi il 24 luglio. Pochi giorni dopo la conclusione dei colloqui nei corridoi della Farnesina erano già noti i nomi, per alcuni versi discutibili, di una rosa di soli tre candidati individuati dalla Commissione per la presentazione al Ministro.

Il 29 di agosto i presidenti delle federazioni di ONG di cooperazione allo sviluppo AOI, Cini e Link2007 incontravano il direttore della DGCS, Ambasciatore Giorgio Marrapodi, il vice-direttore, Min. Luca Maestripieri e il vice direttore ‘reggente’ dell’AICS, Leonardo Carmenati (questi ultimi due peraltro tra i candidati al posto di Direttore AICS). In quella occasione i rappresentanti della Farnesina assicuravano che il verbale definitivo della commissione di valutazione e la rosa dei nomi – “non si sa se 3 o 5” – era già pronto dagli inizi di agosto e che si sarebbe proceduto all’ufficializzazione dei nominativi rimasti ‘in corsa’ al ritorno dalle ferie del presidente della commissione (sic!). Sorprendentemente, nel verbale di quella riunione si legge anche “che (purtroppo) nel Regolamento dell’AICS è prevista la possibilità che il Presidente del Consiglio (soggetto responsabile della nomina del direttore) scelga una persona altra.” In realtà una simile opzione di scelta discrezionale non è prevista dalla normativa, e di fatto sarebbe in contrasto la procedura di “evidenza pubblica” e il principio di “trasparenza” previsti dalla Legge; è dunque curioso che sia emerso dalla menzionata riunione.

Finalmente, quei tre nomi – tutti interni all’amministrazione – sono ufficiali e ci si interroga sui criteri della “motivata proposta” che farà al Ministro la Commissione il cui giudizio di merito rientra nelle proprie prerogative di discrezionalità. Certamente però qualche dubbio sulle scelte realizzate sorge spontaneo. Possibile che su 38 candidati ammessi, alcuni dei quali con elevate e diversificate competenze di gestione e direzione nella cooperazione allo sviluppo, e in altri ambiti e strutture complesse internazionali, la Commissione si sia concentrata su tre curriculum interni all’Amministrazione del MAECI e dell’Agenzia, piuttosto “piatti” e situazioni per ragioni diverse almeno problematiche?

È certamente il caso dell’attuale responsabile delle Relazioni istituzionali e comunicazione dell’AICS, la cui principale esperienza in relazione alla cooperazione allo sviluppo si limita per lo più alla stesura della legge di riforma come assistente parlamentare. Senza considerare l’increscioso episodio di intimidazione di cui si sarebbe reso protagonista nei confronti dei sindacati al tavolo delle trattative, riportato da diversi organi di stampa e oggetto di interrogazione parlamentare.

Si ravvisa invece un certo conflitto d’interessi istituzionali nella candidatura del Vicedirettore generale della DGCS, organo di supervisione e controllo dell’AICS. Controllore, candidato a controllato; plausibilmente una candidatura istituzionalmente concertata per ridurre ulteriormente la pur debole autonomia attribuita dalla Legge all’AICS. Nonostante la buona reputazione come diplomatico e capace burocrate, manca però – come è del resto normale in una carriera diplomatica – di esperienza concreta di gestione di iniziative e vissuto diretto a contatto con i bisogni delle popolazioni dei paesi partner di cooperazione allo sviluppo. È casuale che la Commissione abbia limitato la rosa al minimo di tre persone esistendo certamente altri curriculum fortemente (e probabilmente più) competitivi da offrire come alternative possibili alla scelta del Ministro? È casuale che nella lista non sia incluso nemmeno uno dei due candidati già presenti nella lista dei 5 “finalisti” nella passata selezione del primo direttore dell’AICS, mentre un altro di quei “finalisti” è stato addirittura scelto come membro della Commissione esaminatrice?

È lecito pensare che il risultato fosse già scritto prima di iniziare il percorso di selezione e che corrisponda ad una precisa strategia del Palazzo volta ad affossare una riforma sempre avversata.

Rendere noti i criteri adottati sarebbe un significativo atto di trasparenza ed etica istituzionale.

Sono parte in causa, non lo nego, ma “A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina”.

[i] Missoni, E., «Indirizzo politico, governo, controllo e attuazione nella riorganizzazione della Cooperazione Italiana». Roma : ActionAid, maggio 2015 (https://www.actionaid.it/app/uploads/2015/06/Riforma-Cooperazione_Italiana.pdf).

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